Abbiamo incontrato lo scrittore e giornalista John Hemingway, nipote di Ernest, in tour in Italia per presentare il libro biografico Una strana tribù (Marlin Editore)
Ernest Hemingway, l’avventuriero, il pescatore, il cacciatore, il grande amatore, l’eroe macho americano. Hemingway come John Wayne o Clint Eastwood. Per John Hemingway, nipote del famoso scrittore e figlio di Gregory Hemingway, le cose non stanno esattamente così.
«L’eroico mito di Hemingway non descriveva con esattezza la realtà della mia famiglia», scrive in Una strana tribù. Memorie di famiglia, biografia pubblicata dalla Marlin di Tommaso e Sante Avagliano, con prefazione di Roberto Vitale e traduzione di Maria Grazia Nicolosi.
Il libro di John Hemingway, in realtà, vuole essere un toccante omaggio al padre Gregory, figlio che Ernest ebbe con la seconda moglie Pauline Pfeiffer, il quale, dopo anni di travestitismo, decise di cambiare sesso e cominciò a farsi chiamare, in alcune occasioni, Gloria. Ernest e Gregory erano molto simili fisicamente e condividevano le stesse fragilità (soffrivano entrambi di depressione e malattia bipolare), ma anche le stesse passioni e entusiasmi.
Abbiamo incontrato John Hemingway a Milano, durante la prima tappa del tour italiano per il lancio di Una strana tribù, che sta portando lo scrittore e giornalista americano in giro per l’Italia, insieme alla moglie Kristina, in un viaggio che ripercorre i luoghi frequentati dal nonno Ernest.
L’intervista
In Una strana tribù lei allude spesso allo scollamento tra mito eroico nato attorno alla figura di suo nonno e la realtà indubbiamente più complessa della sua famiglia. Ce ne può parlare?
La foto di copertina di Una strana tribù tratteggia, in una sola immagine, il rapporto idealizzato di adorazione di mio padre verso mio nonno e l’orgoglio di mio nonno per mio padre, che era un cacciatore. Lì si vedono le somiglianze tra i due, nel senso classico di “essere un Hemingway”. Si potrebbe quasi dire che sia un inganno per il lettore, indotto a pensare che questa sia una tipica memoria di famiglia sul bravo figlio che non era all’altezza del padre. Invece, lui era all’altezza, nelle cose che contavano per la famiglia. E forse lo superava ed è questa la scoperta che faccio nel libro.
Cosa vuol dire essere essere un Hemingway?
È molto complicato, come lo era mio nonno, d’altronde. Quando mio padre era piccolo, lo adorava. Ernest era un ottimo padre. Ma come sempre, man mano che un figlio cresce, crescono anche i problemi. Ci si rende conto che anche i padri sono umani, hanno pregi e difetti. Ernest soffriva di depressione clinica. All’epoca non c’erano farmaci per controllare la patologia, quindi si medicava con l’alcol, che non faceva altro che peggiorare le cose. Verso la fine della sua vita è persino stato trattato con l’elettroshock. E man mano che io crescevo, mi sono reso conto che anche mio padre aveva dei problemi.
Leggendo “Una strana tribù”, si intuisce il grande lavoro di ricerca alla base. Cosa ha scoperto?
Dove si può cercare materiale su un uomo come mio padre? In famiglia, ma dovevo aggiornarmi anche sulle ricerche fatte dagli studiosi. Prima della pubblicazione di Il giardino dell’Eden (romanzo in cui Ernest Hemingway esplora i rapporti tra uomo e donna, mostrando interesse per i personaggi androgini e per l’inversione dei ruoli di genere, ndr), pubblicato postumo, mio nonno conservava intatta la sua immagine tradizionale. Dopo quel libro è cambiato tutto, hanno scoperto un uomo completamente diverso, più complicato. Non più il macho stereotipato, ma un’infusione di qualcos’altro. Cosa vuol dire essere un uomo? Significa solo essere un padre di famiglia, un cacciatore, un atleta? Oppure, proprio per essere un padre di famiglia, un uomo deve essere sensibile alle emozioni? Mio nonno era uno scrittore, un artista, doveva necessariamente essere sensibile alle emozioni.
Mio nonno dà il meglio nei racconti, con i quali ha letteralmente cambiato la letteratura in lingua inglese. E proprio in queste storie, si nota un interesse per personaggi di diversi orientamenti sessuali. Non erano certo racconti commissionati dalla sua casa editrice, la Schuster, che era conservatrice. Era lui a sentire il bisogno di scrivere quelle storie. Faceva parte di questo radicalismo della Parigi degli anni ’20, era un artista all’avanguardia, si considerava anche un poeta.
In fondo, una delle sue maggiori ispiratrici fu Gertrude Stein, scrittrice statunitense e regina del tout Paris avanguardistico. Fu lei a mandarlo a vedere la sua prima corrida a Pamplona. Stein, che vedeva in Ernest Hemingway il suo discepolo più brillante, sapeva che avrebbe apprezzato questo spettacolo e che lo avrebbe capito all’istante. Perché non era un’attività virile, era arte, una danza. In origine, il toro simboleggiava l’uomo e il torero rappresentava la sposa. Quando la sposa affonda la spada, si crea una sorta di unione tra i due sessi.
Quindi nel libro ha intrapreso una sorta di cammino, per comprendere meglio suo padre e suo nonno, guardando al di là del mito?
Io non potevo vedere Ernest Hemingway come un macho senza difetti, come fa la maggior parte della gente. Quando ero piccolo sì, potevo leggere i libri e dire “che grande uomo, che eroe”. Poi ho cominciato a capire cose significasse davvero essere Hemingway. Non potevo dirlo alla gente, non avrebbero capito. È un mito, e il mito è sempre più forte della verità. Quindi non ne parlavo e la cosa impediva la mia crescita di scrittore. Tuttavia, volevo scrivere qualcosa a riguardo. Alla fine ho scritto questo libro, che per me è principalmente un modo per spiegare mio padre, un atto d’amore verso di lui. Non volevo descrivere mio padre come un uomo perfetto. Aveva dei problemi, ma cercava di fare del suo meglio per essere all’altezza del proprio padre, al quale ha badato finché ha potuto.
È stato difficile anche per me. Io ammiravo e ammiro tutt’ora mio nonno come scrittore. Come potevo scrivere un libro su mio padre, che a sua volta è collegato a suo padre, senza parlare anche di me? Sono anche io un Hemingway, anche se non afflitto da nessuna condizione clinica. Cercavo solo di dire la verità su mio padre e, strada facendo, ho detto anche cose mie, magari con l’aiuto di alcuni studiosi, come il professore di psicoanalisi Carl Eby, dell’Università della California, che aveva analizzato le tendenze e passioni di mio nonno e la loro deriva dall’idea stereotipata del macho. Ma anche studiose femministe, come Debra Moddelmog, dell’Università dell’Ohio. Molte femministe apprezzano il lavoro di Hemingway. A dimostrazione che Ernest non era contro le donne, anzi! Era spiritualmente connesso con il femminile.
Lei riporta anche alcune lettere inedite tra Ernest e Gregory, alcune molto violente e dolorose. Come ha affrontato questa sfida emotiva?
Le lettere erano in mano a mio fratello, che aveva in mente di farne un documentario. Aveva solo le copie, perché, dopo la morte di mio padre, sono spariti gli originali. Con queste lettere sono stato in grado di ricreare la dialettica che esisteva tra loro negli anni ’50. Fu un periodo molto turbolento per mio padre, perché soffriva di frequenti crisi bipolari. Un libro è sempre qualcosa di organico. È sempre lì, dipende dallo scrittore accettare la verità. Io volevo vedere quanto fossi simile a questi due uomini. Se mio nonno era come mio padre, voleva dire che lo ero anche io? Invece, quando ho cominciato a leggere le ricerche degli studiosi, ho capito tantissime cose. Finalmente potevo spiegare cosa era successo a mio padre. Grazie alle lettere, ho capito la difficoltà dell’essere padre.
Come è stato influenzato dal lavoro di Ernest Hemingway dal punto di vista sia professionale di scrittore e giornalista, sia personale di lettore?
Fin da quando avevo tredici anni sono sempre stato orgoglioso e sbalordito di avere come nonno un grande scrittore come Ernest Hemingway. Crescendo, scoprii che non mi piaceva l’idea di venire dopo di lui. Ma questo era prima di sapere che uno scrittore può scrivere esclusivamente con la propria voce. Alla fine, ci si confronta solo con noi stessi, con l’ansia di superarci.
Il tour promozionale del libro in Italia sembra esso stesso far parte delle sue “memorie di famiglia”, con alcune tappe nei luoghi frequentati da Ernest Hemingway. Cosa significa per lei?
Venire qui fa parte, innanzitutto, della mia storia personale, perché ho vissuto a Milano per anni e ho due bambini che sono nati qui. Però, proprio in Italia è iniziata la storia della mia famiglia. Mio nonno era venuto a Milano, e seguì come giornalista il caso di un incendio in una fabbrica a Rho in cui lavoravano solo donne, rimanendo molto colpito molto dalla cosa. In seguito, fu mandato al fronte. E se non fosse stato per un italiano, che si è messo tra lui e una granata, io non sarei qui. Naturalmente, avevo già visitato Cortina, Caorle, Bassano del Grappa, Trieste e Venezia. Ho un legame molto forte con l’Italia.
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John Hemingway ha già visitato Milano, Bassano del Grappa e Cortina d’Ampezzo.
Giovedì 25 ottobre, alle ore 17.30, presenterà Una strana tribù a Caorle (VE), nella Sala di Rappresentanza “Ernest Hemingway” del Comune (Via Roma, 26).
Venerdì 26 ottobre, alle ore 17.30, sarà la volta di Trieste, allo storico Caffè degli Specchi (Piazza Unità d’Italia, 7). Insieme all’autore intervengono Roberto Vitale (Presidente del Premio Giornalistico Papa Ernest Hemingway) e Francesco De Filippo (Direttore sede ANSA del Friuli Venezia Giulia).
Sempre il 26 ottobre, alle ore 19.30,John Hemingway parteciperà all’inaugurazione riservata alle sole autorità della mostra fotografica “Mr. Papa Hemingway: passione, coraggio e libertà” (sede di rappresentanza della BCC Staranzano e Villesse), che sarà aperta al pubblico dal giorno successivo.