Vi parliamo di Jojo Rabbit, film da poco uscito nelle sale, e di Il cielo in gabbia, il romanzo pubblicato da SEM a cui è ispirato
di Cristina Resa
«Sono stata molto chiara fin dall’inizio. Il libro è mio, ma il film deve essere tuo». Sono parole di Christine Leunens, autrice di Il cielo in gabbia (SEM), il romanzo da cui Taika Waititi ha tratto l’acclamato Jojo Rabbit, film candidato agli Oscar da poco uscito nelle sale italiane.
Poche parole cristalline che, nella loro semplicità, riassumono perfettamente il concetto stesso di “adattamento come trasformazione”. Infatti, se nel passaggio dalla carta allo schermo si assiste a un cambiamento del mezzo espressivo, allo stesso modo cambia il punto di vista, lo sguardo e la sensibilità dell’autore. Perché la trasposizione cinematografica abbia consistenza e significato, e non sia solo una vacua riproposizione della storia di un altro, è necessario trasformare la materia narrativa.
Questo significa che l’annosa diatriba “meglio il libro del film” finisce per non avere mai davvero senso. I due mezzi veicolano riflessioni ed emozioni attraverso modalità differenti e, dunque, devono essere giudicati in base a criteri diversi, laddove l’aderenza pedissequa alla trama originale non dovrebbe essere mai un parametro di giudizio.
Per uno scrittore, scegliere di vendere i diritti del proprio libro significa, dunque, condividerlo, lasciarlo andare verso un destino che non sarà più in grado di controllare, accettare che possa diventare altro, con la consapevolezza che tramite la trasformazione, le narrazioni – attraverso l’esperienza di ogni lettore, ascoltatore, spettatore – diventano parte di una tradizione condivisa capace di resistere nel tempo.
Da questo punto di vista, il caso di Jojo Rabbit è emblematico. Il film di Waititi sfrutta la premessa del libro per raccontare una storia diversa per trama e tono, adattata alla poetica del regista. Da una parte abbiamo la travolgente comicità di un film dai chiari intenti parodici, dall’altra la saturnina ironia di un romanzo sottilmente inquietante. Tuttavia, l’ossatura del romanzo di Leunens è ancora tutta lì. Emerge leggendo con attenzione Il cielo in gabbia, insieme alle suggestioni presenti nel libro che hanno profondamente ispirato il lavoro di adattamento di Waititi.
Johannes e Jojo
Come dicevamo, Il cielo in gabbia e Jojo Rabbit condividono struttura e personaggi. Johannes Betzler è infatti il protagonista indiscusso di entrambe le narrazioni.
Nel libro di Leunens, tuttavia, Johannes vive con la madre, il padre e la nonna in Austria, non in Germania. La narrazione comincia con l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Da quel momento, la vita del giovane Johannes cambia. Affascinato dalla figura di Adolf Hitler e persuaso dalle menzogne sulla razza della propaganda nazista, diventa subito un fanatico.
Anche se osteggiato dai genitori, entra nella Gioventù Hitleriana, prima nella Jungvolk e poi nella Hitler-Jugend. Arruolato come soldato a 17 anni, viene ferito durante un raid aereo e rimane sfregiato. Dopo la convalescenza, scopre che i genitori nascondono in soffitta una ragazza ebrea, Elsa. L’odio iniziale di Johannes nei confronti della ragazza si trasforma in interesse, amore e infine ossessione. Dopo la scomparsa di entrambi i genitori e la fine della guerra, Johannes decide di trattenere per anni l’amata Elsa, mentendo sugli esiti del conflitto e promettendo di tenerla nascosta. È il racconto di questa relazione forzata, tanto malsana quanto intensa, a rappresentare il cuore narrativo di Il cielo in gabbia.
Nel film di Waititi Johannes, interpretato da Roman Griffin Davis, ha solo dieci anni, è soprannominato Jojo e vive da solo con madre Rosie (Scarlett Johansson). Anche lui è un membro convinto della Gioventù Hitleriana. Tuttavia, essendo un bambino, vive la sua ossessione attraverso il suo sguardo infantile. Si muove in un mondo a tratti surreale, abitato da personaggi bizzarri. È sempre accompagnato da un ingombrante amico immaginario, il “suo” führer, Adolf Hitler (interpretato dallo stesso Taika Waititi). Ferito dall’esplosione di una granata durante un’esercitazione della Jungvolk, ma in mondo molto meno grave rispetto al suo alter ego cartaceo, scoprirà presto la presenza di Elsa (Thomasin McKenzie), nascosta dalla madre nei muri della loro casa, rimanendone affascinato. Ma in questa storia, dai toni indubbiamente meno cupi, le cose andranno in modo diverso.
Christine e Taika
Entrambi neozelandesi, Christine Leunens e Taika Waititi sono due artisti dalla storia personale affine. Leunens, infatti, figlia di una madre italiana e un padre belga, è nipote dell’artista fiammingo Guillaume Leunens, deportato in un campo di lavoro tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.
Proprio dalla necessità di affrontare questo passato doloroso della sua famiglia, affidare quei terribili ricordi acquisiti alla carta, è nata l’idea di raccontare una storia ambientata durante il Terzo Reich. L’ispirazione è venuta dalla storia vera di una donna anziana conosciuta a Parigi, la cui famiglia aveva tenuto nascosto un ebreo polacco dietro un falso muro per tutta la durata della guerra. I due giovani, che comunicavano attraverso il muro, si innamorarono e, una volta finita la guerra, si sposarono.
Tuttavia, questa vicenda estremamente positiva ha portato Leunens a chiedersi «E se uno dei due amanti fosse stato membro della Gioventù Hitleriana?». Così, nella fiction, ha invertito il genere dei ruoli, trasformando una storia d’amore nel racconto di un’ossessione scaturita dai pregiudizi e dall’ignoranza. E possiamo dire che, in un certo senso, abbia a sua volta “adattato” (dunque trasformato) un racconto altrui.
Anche la storia familiare di Taika Waititi affonda le sue radici in una tradizione culturale ricca e composita. Māori della tribù di Te Whānau-ā-Apanui dalla parte del suo defunto padre, la madre (il cui cognome, Cohen, è stato per anni usato dal regista per firmare alcuni lavori) è di origini ebraico-russe-irlandesi.
Il ramo materno della sua famiglia, sfuggito ai pogrom in Russia, è arrivato prima in Inghilterra e poi in Nuova Zelanda. Inoltre, il nonno paterno, suo omonimo, ha combattuto contro i nazisti in Nord Africa e in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale.
Dunque, con Jojo Rabbit, Waititi sembra aver voluto omaggiare questa storia di determinazione e inclusione. Lo ha fatto con sensibilità e semplicità, nel suo tipico stile strampalato comune a film come Boy e Hunt For Wilderpeople. In particolare, ha trasformato una storia in cui predominano le ombre in un luogo in cui ritrovare, attraverso la forza della risata, un po’ di quell’umanità di cui spesso la vita ci priva.
Esterno e interno
È interessante notare come entrambe le opere parlino di giovani segnati dai traumi della vita, con modalità opposte, ma complementari.
Jojo Rabbit sembra concentrarsi sulla rappresentazione del mondo esterno. Un mondo visto dagli occhi di un bambino, il nostro giovane Jojo, alla ricerca di maestri di vita, pronto a essere plasmato. Il modello positivo è certamente rappresentato dalla madre Rosie, il meraviglioso personaggio interpretato da Scarlett Johansson che incarna la forza e l’integrità di quanti si sono opposti attivamente al regime.
E fa riflettere come quest’unico personaggio totalmente positivo agisca di nascosto, mentre i cattivi maestri impartiscono le loro lezioni ad alta voce, in piena luce del sole, esponendo nella pubblica piazza i corpi senza vita degli oppositori.
In questo contesto, Waititi ha scelto di interpretare personalmente Adolf Hitler, amico immaginario del suo protagonista, con l’obiettivo di ridicolizzare quel tipo di propaganda urlata e violenta che si nutre di fanatismo, origine dell’orrore. E questa riflessione sulla propaganda nazista acquista ancora più forza attraverso l’uso della musica.
Questo si può notare nella bellissima sequenza di apertura, che ha un che di programmatico: l’associazione di Komm Gib Mir Deine Hand, cover in tedesco di I Want to Hold Your Hand dei Beatles, a un montaggio di immagini di repertorio delle folle in delirio ai comizi del führer sembra volerci ricordare che la propaganda è, essenzialmente, una grande messa in scena, uno spettacolo che fa leva sulla frustrazione delle masse. Waititi, con Jojo Rabbit, prova a disinnescarla attraverso un altro tipo di spettacolo, la commedia.
Il cielo in gabbia, invece, volge lo sguardo all’interno. Dentro la casa di Johannes, dentro la sua mente e il suo cuore. È un libro che ci parla dei segni lasciati dall’ideologia antisemita, razzista, machista e tossica, anche anni dopo la fine della guerra. Delle ferite fisiche e psicologiche.
E Johannes, per quanto sia convinto di essere l’eroe della sua storia personale, è sicuramente un narratore inattendibile proprio perché compromesso dal clima d’odio seminato dal Reich. Ha perso ogni direttrice etica, insieme alla capacità di amare sinceramente.
L’amore che pensa di provare per Elsa, tenuta chiusa per anni tra quattro mura da una bugia, privata della sua individualità e della possibilità di trovare il proprio posto del mondo, in realtà dimostra di essere solo ossessione e desiderio di possesso. In qualche modo, partendo da un fatto storico dai confini ben delineati, il libro di Leunens stimola la riflessione su alcuni precisi caratteri culturali che persistono nella società odierna, scavando nella complessa psiche umana. Per tutti questi motivi, noi vi consigliamo di non privilegiare l’una o l’altra opera. Se non l’avete già fatto, andate a vedere Jojo Rabbit e leggete Il cielo in gabbia. O viceversa, naturalmente. Mai come in questo caso, ci troviamo di fronte a due esperienze in grado di arricchirsi a vicenda.