Il Premio Strega, La nave di Teseo, i libri, gli autori, fare editoria. Una intervista a Elisabetta Sgarbi.
In un premio come lo Strega storicamente dominato dai grandi gruppi editoriali (per anni quasi un duello a due tra gruppo Mondadori e gruppo Rizzoli), la vittoria di un titolo pubblicato da La nave di Teseo è davvero un unicum. È la prima casa editrice indipendente da decenni a portare a casa questo alloro.
Certo, il premio è cambiato, e si è negli ultimi anni affrancato da una serie di vincoli e lacci. E certo, Il colibrì rimarrà come uno dei titoli più importanti della produzione di un autore importante come Sandro Veronesi, l’unico dopo Paolo Volponi, ad avere vinto per due volte lo Strega. Ma sappiamo, senza neanche tanta polemica, che la sigla editoriale, col tutto il seguito di relazioni, dipendenze, contiguità, ha sempre pesato la sua parte nell’esito del principale premio letterario italiano. E allora, sarà davvero il caso di scambiare due parole con Elisabetta Sgarbi, fondatrice de La nave di Teseo e anima di un gruppo di lavoro tanto deciso quanto infaticabile.
Cosa significa per La nave di Teseo, con così poca storia alle sue spalle, cinque anni appena, la vittoria di un premio come lo Strega?
La nave di Teseo è un’anomalia. Non l’ho mai considerata una piccola casa editrice. Certo, partendo da zero, era una “neonata” casa editrice. Ma nasceva con Umberto Eco, con me, Mario Andreose, Eugenio Lio, Oliviero Toscani, Paola Sala, persone di generazioni differenti ma ciascuno con una esperienza alle spalle, una elevata professionalità, e che aveva lavorato insieme. E poi nasceva non solo con Umberto Eco, ma con grandi autori, appunto Edoardo Nesi, Sandro Veronesi, Tahar Ben Jelloun, Pietrangelo Buttafuoco, Furio Colombo, Nuccio Ordine, per citarne alcuni. Certo, nulla era scontato, nulla ci diceva che altri autori ci avrebbero creduto. Poteva andare male, e molti ne erano certi. Però le persone in una casa editrice fanno la differenza. In questo senso, ho sempre pensato alla Nave di Teseo come un grande editore.
E cosa significa per Elisabetta Sgarbi, la cui carriera editoriale è ben più lunga della storia della Nave? Cosa ha significato misurarsi con questa prova, non più dall’interno di un grande gruppo ma dal ponte di comando di questa nave corsara?
La nave di Teseo è nata quando ho perso mia madre. Ed è nata dopo una lunga trattativa con la Mondadori che ho raccontato più analiticamente sulla rivista Pretext numero 12 2020, diretta da Ada Gigli e Pier Luigi Vercesi. Capisco che sia difficile comprenderlo, allora poi era generalmente impossibile: ma non potevo rimanere alla Bompiani senza gli autori con cui ero cresciuta, a cominciare da Eco e Veronesi. Sandro aveva lasciato la Mondadori nel 1994, quando Silvio Berlusconi entrò in politica e divenne Primo Ministro. Lo avrebbe fatto ancora. Eco si era espresso in merito molto nettamente. Chiedo fedeltà agli autori, e non potevo non essere fedele a loro. Ho provato a spiegarlo, ma senza successo. E così ho fatto, ho lasciato la Bompiani per costruire una nuova casa editrice con gli autori che non sarebbero rimasti alla Bompiani. Per me personalmente è stata una cesura: lasciare tutto quanto avevo conquistato, in anni di lavoro duro, di battaglie, di mille difficoltà superate, per iniziare da zero. Una libertà totale, ma molto pericolosa.
Avere costruito una casa editrice, con un catalogo, con delle persone che in questi anni sono cresciute insieme a me a un ritmo molto accelerato, è un motivo di grande soddisfazione. Poi non è che ci si pensa tutti i giorni. Ogni giorno ha le sue battaglie, e in realtà si comincia sempre da zero. Si è sempre apprendisti editori, se si è persone serie.
Possiamo dire che in qualche modo, La nave di Teseo, è “nata grande”? L’eredità di Bompiani, un pezzo di portafoglio fatto di autori già affermati e spesso di primaria grandezza, sia in termini letterari che commerciali, una numerica di titoli da subito ragguardevole. E ovviamente ambizioni commisurate a questo impianto originario. Il progetto era da subito collocarsi alle spalle dei gruppi maggiori?
Io non sono una persona paziente. Mi era chiaro che in un mercato così concentrato, con così grandi gruppi e anche con editori indipendenti dallo straordinario catalogo (Sellerio, E/O, Neri Pozza, Fazi) o si partiva con grande energia, oppure non saremmo riusciti a trovare spazi. Abbiamo debuttato primi in classifica, con Pape Satàn Aleppe. Me lo rammento sempre, perché quello fu il periodo più buio. Perdere Umberto appena nati ci gettò nello sconforto. Ma la sera stessa abbiamo deciso di reagire, pubblicando subito il suo libro. Devo dire che, grazie a PDE, che fece un lavoro straordinario nel week end, e a Grafica Veneta, che stampò 50.000 copie in un giorno, riuscimmo a essere in libreria in 3 o 4 giorni. Non mancarono le critiche, ma così esordimmo, con un grande libro e un grande autore e primi in classifica. L’inizio dà il tono. Fu importante per tutti noi.
E come avete configurato la casa editrice in vista di questi obiettivi?
Non amo parlare di obiettivi. Penso che un editore deve essere aderente a quanto via via scopre e decide di pubblicare. Il primo obiettivo, per un editore che nasce da zero, è di esistere. Che, detto in termini meno minimali, vuol dire costruire un catalogo che resista nel tempo. Per costruire un catalogo è necessario pubblicare libri dalla parte dei quali sta il fattore tempo. Che non durano una stagione, ma anni. In questi quattro anni abbiamo raggiunto una quota di catalogo, in termini di fatturato, crescente e molto lusinghiera. Abbiamo titoli da trenta, quaranta mila copie l’anno, senza la minima flessione, come L’alchimista, Il manuale del guerriero della luce, Il nome della rosa, Nel mare ci sono i coccodrilli, i gialli di Joel Dicker, i libri di Andrea De Carlo, Giorgio Faletti, Giorgio Scerbanenco, Guillaume Musso, Petros Markaris, Vittorio Sgarbi.
Autori consolidati che vi hanno seguiti dalle precedenti esperienze o acquisiti nel corso di questi anni; classici contemporanei dimenticati o quanto meno eterodossi recuperati nella loro totalità (fino al De Chirico letterario o all’eccentrico, meraviglioso Aldo Buzzi); la scoperta di nuove voci esordienti o postesordienti. Come avete lavorato per costruire questo catalogo da subito maturo?
La nave di Teseo è una realtà corale. Esserne alla guida non vuol dire “faccio tutto io”, ma prendermi la responsabilità delle cose belle e degli errori, metterci la faccia. Essere un referente per gli autori, quando c’è un problema, una necessità, una critica, una rimostranza. Però le persone che lavorano con me hanno una personalità e una storia importante: Mario Andreose è stato il mio maestro, ha le sue passioni, i suoi percorsi, che condividiamo. L’operazione Fosco Maraini, l’operazione Giorgio De Chirico le ha condotte lui. Poi mi conosce bene, conosce le mie passioni. Insomma, siamo tutte menti all’opera, in continuo fermento e scambio. Per non citare gli editor, Eugenio Lio e Oliviero Toscani. Anna Maria Lorusso, che ha da poco vinto un importante premio per la traduzione. Stefano Losani, un direttore commerciale giovane, attento, ma anche spavaldo, come deve essere un direttore commerciale. Il tenace impegno dell’ufficio stampa, che per me è un asse fondamentale della casa editrice. Da qui la sensazione di vivacità che La nave sprigiona, nella quantità, diversità e qualità delle pubblicazioni.
Il primo pensiero, e non solo nei giorni dello Strega, corre subito alla narrativa. Ma La nave di Teseo ha scommesso carte importanti anche nell’ambito della saggistica. Di questi giorni è l’uscita di un libro editorialmente impegnativo come il nuovo Piketty di Capitale e ideologia. E penso a certi titoli di saggistica molto progettuali come il Ferroni dedicato a L’Italia di Dante, o al Massimo Onofri di Isolitudini, l’anno scorso… tutti libri che sembrerebbero imporre una forte partecipazione dell’editore sia in fase di concepimento che in ambito redazionale.
La saggistica “alta” ha sempre avuto un ruolo importante alla Nave. D’altra parte, il primo libro pubblicato è stato un “Faro”, appunto una saggistica. E questa è una differenza importante rispetto alla Bompiani, che – a parte i saggi di Umberto Eco – era focalizzata sulla narrativa. Il primo anno di vita della Nave, nel 2016, abbiamo pubblicato il premio Pulitzer per la saggistica Joby Warrick, Bandiere nere. Per me sono segni importanti. Poi Ferroni, certo. Un libro straordinario, per cui ringrazio non solo Giulio Ferroni, ma anche la Società Dante Alighieri che, su quel libro, ha avviato molti progetti. È un saggio che si sta rivelando imprescindibile, che sta entrando nelle scuole e che, in meno 7 mesi abbiamo ristampato 3 volte. È uno dei libri di cui vado fiera. A Thomas Piketty sono legata sin da quando, come una pazza, alla Fiera del Libro di Francoforte del 2013, rincorsi l’allora proprietario di Seuil, Olivier Betourne, e gli dissi, con una certa foga, che volevo assolutamente comprare i diritti di Il capitale del XXI secolo, appena uscito in Francia. Lui – che mi ha sempre visto come una ragazza di talento e fuori dagli schemi– mi chiese se sapevo che era un saggio di economia di oltre 1000 pagine. Io gli dissi di non preoccuparsi, che quelli erano problemi miei. E dopo qualche mese esplose negli Stati Uniti e, di rimbalzo, in tutto il mondo. Piketty pone temi inaggirabili. E il prossimo autunno, che temo moltissimo, non soltanto per la pandemia, ma per la situazione generale del paese, i temi e le proposte che Thomas solleva saranno lampanti. E poi Vittorio Sgarbi: con “Il tesoro d’Italia” ha portato a termine un progetto straordinario, raccontare la storia dell’arte da Wiligelmo a Guccione, in sette volumi, oltre 3.500 pagine. Una collana che resterà nel tempo.
Quest’anno sono quarant’anni dalla pubblicazione de Il nome della rosa (un altro Premio Strega) e purtroppo quattro dalla morte di Umberto Eco. Qual è oggi la parte che sente più viva e attuale del suo lascito nella quotidianità e nella proiezione del suo lavoro e de La nave?
La curiosità, il divertimento, la coralità, il rigore. Mentre eravamo seduti al tavolo dello Strega al Ninfeo, con Mario Andreose, Eugenio Lio, Sandro Veronesi, ho chiesto a Mario: “Umberto sarebbe venuto, stasera?” Mario mi ha risposto: “Certamente. Non ti ricordi quanto ci prendeva in giro quando perdevamo il Premio Strega?” Umberto ci ha lasciato il senso di questo lavoro: dare tutto, con la massima serietà, ma consapevoli che facciamo un mestiere fantastico, che va fatto col sorriso sulle labbra, nonostante tutto.
Che futuro state costruendo per La nave di Teseo? Quali obiettivi vi state dando e come volete raggiungerli?
“Il prossimo villaggio”, per citare Kafka, è superare il 2020, e costruire il 2021.