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Quando tutto è cominciato

12 marzo 2021 | cristina
Quando tutto è cominciato

Un libro imperdibile? La promessa di un sogno di Sheila Rowbotham. La incontriamo in streaming il 16 marzo. E intanto abbiamo chiesto di recensirlo a Vanessa Roghi.


Sheila Rowbotham è una storica e una delle figure più importanti nella storia del movimento femminista, suoi testi sono stati tradotti in Italia da importanti editori di saggistica. In La promessa di un sogno (Treccani Libri) però, Rowbotham racconta la sua formazione da ragazza della provincia inglese ad accademica e militante femminista attraverso gli anni ‘60, tra la Francia degli esistenzialisti e la Londra dei Beatles, di Mary Quant, delle gallerie d’arte, degli squat, dei beat, dei mods, degli hippies e dei tanti gruppi e gruppetti militanti di quegli anni, del formarsi nel mezzo di tutti quei movimenti, di uno specifico movimento delle donne. È un libro di rara densità e nello stesso tempo deliziosamente divertente, pieno di aneddoti e scritto con un sense of humour davvero tutto britannico. Ne parleremo a #PDESocialClub con l’autrice, intervistata da Elisa Cuter, editor di «Il Tascabile» e autrice di Ripartire dal desiderio, sulle pagine Facebook di PDE, di Treccani, di numerose librerie e sul nostro canale YouTube il 16 marzo alle 18.00. Ma prima abbiamo chiesto a una storica di valore come Vanessa Roghi di recensire La promessa di un sogno e introdurci alla cruciale figura di Sheila Rowbotham.

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di Vanessa Roghi

Sheila Rowbotham è una storica inglese, meno nota in Italia di altri storici suoi conterranei e contemporanei, non per questo è meno importante per la storia della storiografia che ha rifondato metodo e confini del nostro mestiere negli ultimi decenni.

Rowbotham è, infatti, la studiosa che ha posto le basi di una ricerca sulle donne in chiave marxista contaminando l’approccio di Edward P. Thompson sulla storia sociale con una prospettiva di genere fino a quel momento, ovvero i tardi anni Sessanta, ancora inedita.

I suoi libri sono arrivati presto in Italia. Il suo Donne, resistenza e rivoluzione è stato pubblicato da Einaudi nel 1976. Mentre nel 1977 è stata la casa editrice Editori Riuniti a pubblicare il seminale Hidden from History rediscovering women in history from the 17th century to the present, tradotto in italiano Esclusa dalla storia: trecento anni di lotte della donna per la sua liberazione.

Poi nessuno dei suoi saggi successivi è stato più tradotto da noi, con un interessante paradosso che ha visto il disinteresse nei confronti dei suoi studi correre parallelo all’avanzare di una agguerrita schiera di storiche che hanno fondato anche in Italia gli studi di storia delle donne.

Così mancano in italiano le sue ricerche sulle donne della famiglia Marx, o quelle successive sulle donne dei paesi del “terzo mondo”, fra forme di solidarietà e opportunità offerte dalle tecnologie, studi chiaramente influenzati dalla svolta che i cultural studies di Stuart Hall hanno determinato nel marxismo inglese, ma più in generale nella storiografia mondiale.

Nel 2000 Rowbotham ha pubblicato con Verso la sua autobiografia, Promise of a Dream: Remembering the Sixties, che ora esce, finalmente, in Italia per Treccani, nella bella traduzione di Natascia Pennacchietti (La promessa di un sogno. Ricordi e utopie degli anni Sessanta) 

Scrive a un certo punto del suo racconto Rowbotham: «Tuttavia, se nel 1961 all’orizzonte letterario stava per apparire l’eroe romantico della classe operaia, nessun genere avrebbe celebrato una donna della piccola borghesia.» (p. 83). Così è lei stessa a farlo, a celebrare quell’oggetto così poco amato dal marxismo classico, perché la storia di quell’eroina piccolo borghese altro non è che la storia della sua vita.

Rowbotham nasce a Leeds, in una famiglia, per l’appunto, piccola borghese, nessuno crede davvero che l’università abbia posto nel suo futuro però al liceo ce la mandano, un po’ perché sono gli anni che sono, un po’ perché per trovare un lavoro almeno quello serve. Prova a entrare a Oxford, ci riesce, vuole studiare storia. È il 1959. Durante i suoi studi si rende conto di non aver alcun interesse verso la storia diplomatica europea che si studia al St. Hilda, così viene spedita da una sua insegnante a incontrare «Richard Cobb, storico della Rivoluzione francese, per studiare la storia sociale europea; un provvedimento che avrebbe avuto notevoli conseguenze. Quell’uomo malizioso dallo sguardo ribelle e la pelle rossastra per l’alcol mi avrebbe introdotto alla “storia fatta dal basso” che iniziava a interessarsi alle voci e alle opinioni dei poveri. Quando poi andai al Balliol per discutere con lui le mie letture estive, Cobb mi disse di andare a trovare dei suoi amici a Halifax. “Studiano i cartisti” mi disse senza ulteriori spiegazioni».

Così Rowbotham conosce Dorothy e Edward P. Thompson e capisce che la storia che le interessa è un’altra: è la storia sociale in chiave marxista che in quegli anni sta producendo alcuni degli studi più innovativi nel settore. The making of the English working class esce nel 1963 e cambia per sempre (purtroppo non ovunque) gli studi sulla storia del movimento operaio.

Anche Thompson come Rowbotham, viene da una famiglia metodista, il confronto con le comuni radici religiose è per la storica un modo per ragionare su alcune questioni legate al suo approccio alla ricerca ma anche alla politica più in generale. Non a caso è Thompson stesso a mettere in relazione le cose in una lettera che scrive a Rowbotham a metà degli anni Sessanta a proposito dei nuovi movimenti giovanili: «Edward Thompson mi scrisse il 5 marzo dicendo che non apprezzava quella cultura giovanile così introspettiva e narcotizzata: “Penso che non sia né migliore né peggiore di altre forme di automutilazione psichica, ma al momento è peggiore perché appartiene a una cultura così eccessivamente autoreferenziale, completamente assorbita in se stessa e nel suo dramma. Molto simile al revivalismo metodista, incentrato sull’autoesame e quindi molto infelice e non molto versato alla reciprocità… l’involuzione culturale in cui sguazzate, che non è ‘tua’… prova a parlare un po’ di altri mondi”» (p. 251).

1970: Roberta Hunter Henderson e Sheila Rowbotham alla Women’s Liberation conference di Sheffield

Anche attraverso il riposizionamento dei suoi studi Rowbotham entra in contatto con il movimento trotzkista, diventa amica del suo coetaneo Tareq Ali, che la chiama nella redazione di «The Black Dwarf», rivista militante che esce fra il 1968 e il 1972. A quel punto la prospettiva femminista è già più chiara, anche se non per l’intero movimento, scrive Rowbotham: «Nel 1966 un nuovo femminismo stava iniziando a muovere i primi passi. L’articolo pionieristico di Juliet Mitchell, Women: The Longest Revolution, era appena apparso sulla “New Left Review” quando incontrai Jean McCrindle. Ex membro della Nuova sinistra, Jean aveva lasciato il Partito comunista nel 1956. Lei e Juliet Mitchell avevano discusso la posizione delle donne prima che Juliet scrivesse Women: The Longest Revolution e Jean mi portò con sé a una riunione in cui si sarebbe parlato di quell’articolo. Juliet si sentiva poco bene e non si presentò, al suo posto parlò Robin Blackburn. Una donna americana, membro dell’International Marxist Group, parlò di quanto fosse importante che le donne mantenessero il controllo sul proprio corpo: un’idea che circolava fin dagli anni Venti, quando il socialismo aveva ancora influenze femministe».

Pubblico e privato si intrecciano: Blackburn porta Rowbotham a riflettere su se stessa in un’ottica diversa, complicata è la relazione fra vissuto e politica, fra studio e percezione di sé, e passa proprio dalla questione del corpo, della sessualità, che oscilla fino a questo momento nell’autobiografia della storica fra l’idea di essere una persona frigida o una ninfomane. Per una donna, del resto, sembra non esserci alternativa.

Nella formazione della studiosa pesa moltissimo anche il cinema, da quello di Ingmar Bergman che con Persona racconta, appunto, lo sdoppiarsi del sé e offre una nuova parola al lessico dell’auto analisi. E poi Simone de Beauvoir, che diventa più comprensibile alla luce dei nuovi studi e Doris Lessing con il suo Taccuino d’oro, modello di riferimento di «una nuova sensibilità che univa la storia personale alla politica di sinistra, con una sorprendente riflessione su percezioni che avevo creduto esclusivamente mie» (p.238).

Cambia anche il concetto di classe sociale, cambia perché la società si frantuma, e la distinzione non è più così netta, la generazione sembra pesare più della classe anche per i giovani operai dei tardi anni Sessanta.  

 

Così come cambiano i termini stessi della militanza: «quell’inverno il film per la televisione di Ken Loach Cathy Come Home, scritto da Jeremy Sandford e prodotto da Tony Garnett, denunciò apertamente il problema dei senzatetto. Non era la povertà di Cathy a rendere il film tanto avvincente ma le umiliazioni che subiva. Rifiutando decisamente il ruolo di vittima, Cathy continuava a lottare contro le avversità finché i servizi sociali non le portavano via i figli. La reazione al film fu un cambio di atteggiamento» (p.227).

Quello che emerge è un attivismo “pragmatico e anti-autoritario”, che si scontra con le forme tradizionali e rigide di militanza. Rowbotham, che insegna a scuola alla fine degli anni Sessanta, lo rileva anche nella diffusione di idee più libertarie sull’educazione non più esclusivo appannaggio delle scuole progressiste. «A Risinghill, l’istituto comprensivo in fondo a Chapel Market a Islington, Michael Duane stava facendo scalpore come preside anti-autoritario». Centrale diventa la questione politica della lingua, del suo uso, del suo possesso. Questo Rowbotham lo impara da un libro italiano tradotto in inglese in tempo reale, Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani.

Anni interessanti, davvero, per citare il titolo dell’autobiografia di Eric Hobsbawn, anni di profonde trasformazioni che la storica ricostruisce in relazione al proprio vissuto: «Descrivendo ciò che pensavo mentre lo pensavo e ciò che facevo mentre lo facevo, spero di riportare alla luce alcuni dei sogni degli anni Sessanta, in parte perché la storica che è in me è interessata ai fatti, e in parte perché credo ancora che abbiano una rilevanza per il nostro futuro. Recuperare quei sogni è, dunque, un atto di ribellione. Scavare nel passato, tuttavia, significa adeguarsi al passo imposto dal compito. “Chi cerca di accostarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un individuo che scava» ha detto Walter Benjamin”.

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Vanessa Roghi, storica, è autrice di documentari per La grande storia di Rai Tre. Si occupa di storia della cultura. Ha scritto La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole (2017), Piccola città. Una storia comune di eroina (2018) e Lezioni di Fantastica. Storia di Gianni Rodari (2020), tutti editi da Laterza.