Simona Micali, in un saggio edito da Shake Edizioni, racconta i mostri e le figure aliene della fantascienza per riflettere su ciò che siamo e cosa diventeremo
di Cristina Resa
Perché la fantascienza? Simona Micali, docente di Critica letteraria e letterature comparate all’Università di Siena e autrice di Creature: La costruzione dell’immaginario postumano tra mutanti, alieni, esseri artificiali (Shake Edizioni), parte praticamente da qui, da questa domanda apparentemente semplice, ma densa di significati. La risposta, infatti, può portarci in molteplici direzioni diverse.
Non si tratta solo della naturale inclinazione dell’essere umano a raccontare storie – homo narrans, scriveva il teorico della comunicazione Walter Fisher – per comprendere meglio sé e dare un senso al mondo, ma della stessa forma di una narrativa, quella speculativa, che per natura è portata a immaginare scenari diversi da quelli in cui viviamo per riflettere innanzitutto su quello che siamo e che diventeremo.
Alla fine, in questo libro snello ma densissimo di informazioni e riflessioni, che nasce per un pubblico non specialistico, Micali ci conduce in un viaggio attraverso l’immaginario fantascientifico, tra letteratura, cinema e TV. Ci rendiamo conto che spesso si abusi di questa metafora per parlare di saggistica. È tuttavia difficile non pensare al viaggio quando ci si trova di fronte a una trattazione che fa dell’esplorazione la sua ragion d’essere. Un po’ come scriveva il capitano James T. Kirk nel suo diario di bordo, nell’intro della serie classica di Star Trek, l’obiettivo è sempre “esplorare strani nuovi mondi […] là dove nessuno è mai giunto prima”. L’opera fantascientifica, d’altronde, ci porta in quello che Micali chiama “altrove fantastico, dove faremo incontri ed esperienze impossibili nel nostro orizzonte di realtà”. E se ci pensate, quello che nei racconti fantascientifici a volte consiste in un viaggio in una sola direzione, per il pubblico è sempre un viaggio di andata e ritorno. Torniamo nel nostro mondo, una volta che chiudiamo un libro, o che finiscono i titoli di coda di un film, con una, si spera, diversa consapevolezza.
In quei mondi, infatti, ci siamo soprattutto noi, così come tutte le creature che li abitano sono un nostro riflesso. In fondo, il non umano, il mostruoso, viene costruito spesso attraverso la negazione di ciò che crediamo essere prerogativa dell’essere umano, come uno specchio che restituisce immagini speculari, capovolte, sovvertite. Pensate agli zombi di George Romero, corpi morti senza coscienza spinti solo dall’istinto, antitesi dei viventi nonostante nella forma siano costantemente rievocati; alla Creatura assemblata dal Victor Frankenstein nel romanzo di Mary Shelley, anticipazione dei replicanti di Blade Runner di Ridley Scott, che incarnano la paura di una contraffazione dell’umano capace di privarlo dell’autenticità; o ancora, alle piante umanoidi mutanti di Annientamento di Jeff VanderMeer, portate su schermo da Alex Garland nell’omonimo adattamento cinematografico. Tutti questi personaggi sono specchi: perché possa essere concepito il non umano, si deve partire necessariamente dall’umano. Attraverso la narrazione speculativa, ci facciamo delle domande su di noi e ci mettiamo in relazione con l’alterità, in un contesto, però, che ha la possibilità di essere spogliato delle costruzioni sociali. O almeno abbiamo l’opportunità di allargare l’orizzonte. Perché se il rapporto con l’altro è trattato da sempre, da diversi generi, la fantascienza lo mette in scena con presupposti molto più chiari e plausibili. È quasi la sua ragion d’essere.
«In quanto variante o derivazione plausibile del nostro mondo» scrive infatti Simona Micali, «il mondo fantascientifico ne diventa più esplicitamente un’immagine deformata e straniante, lo strumento di una messa in questione del nostro mondo: la meraviglia, il disorientamento o l’inquietudine per ciò che è nuovo si combina sempre con il riconoscimento di ciò che è familiare, e attraverso la dialettica di questi due processi (incontro con il riconoscimento del noto) siamo portati ad acquisire una diversa consapevolezza del mondo in cui viviamo, maggiormente critica o semplicemente relativistica, cioè a considerarlo un mondo possibile, anziché l’unico mondo possibile».
Immaginare la fine di un mondo
Creature, dunque, nasce da due scommesse. La prima, come racconta Micali stessa, fatta vent’anni fa, cioè affrontare lo studio della fantascienza da un punto di vista accademico, vincendo il pregiudizio verso un genere considerato di puro intrattenimento. La seconda riguarda il provare ad affrontare questi argomenti, frutto appunto di una ricerca rigorosa, in un libro squisitamente divulgativo e accessibile. Impostazione che, d’altronde, è un po’ nello spirito della narrativa di genere, che spesso mette sul piatto questioni sociali, filosofiche e scientifiche complesse, filtrate attraverso il linguaggio condiviso del fantastico.
Poiché il saggio affonda le sue radici proprio nella ricerca, è evidente che il punto di partenza e di arrivo non siano necessariamente le risposte, ma proprio le domande sul ruolo della fantascienza nel nostro immaginario e sulla sua forza sovversiva, oseremmo dire rivoluzionaria, nel superare una prospettiva puramente antropocentrica. «È più facile immaginare la fine del mondo che la fine dell’antropocentrismo?» si chiede Micali in un capitolo, parafrasando la famosa frase di Mark Fisher riferita al capitalismo. Ma appunto, dice Micali, è proprio a questo che serve “immaginare la fine del mondo”. Scrive: «la fantascienza può essere un antidoto all’ottusità nei confronti del presente, alla nostra incapacità di immaginare alternative, perché costituisce un formidabile allenamento a immaginare un mondo diverso e un uomo diverso, e dunque uno spazio privilegiato di critica sul presente».
Dunque, immaginiamo. La fantascienza ha, in questo senso, un rapporto privilegiato con l’immaginazione, come tutto quello che rientra nel campo del fantastico e del futuristico. Ma avendo anche una forte componente di plausibilità, trova la sua maggiore ispirazione nel presente. Il mondo, il nostro mondo, cambia esattamente come succede agli esseri umani, e una prospettiva totalmente antropocentrica non basta più.
La narrazione speculativa, in qualche modo, ci porta nel campo della simulazione, dell’immaginazione, dell’astrazione di tutta una serie di questioni che è la realtà stessa a suggerire. Ansie sociali o politiche, riflessioni etiche e filosofiche, questioni di genere, problematiche ambientali. Ci offre, in sostanza, la possibilità di guardarle da un’altra prospettiva.
La prospettiva postumana
E qui entra in gioco la nozione di “postumano”, termine spesso nebuloso utilizzato come etichetta ombrello per raccogliere diversi discorsi. Micali è, lo abbiamo già scritto, una studiosa rigorosa e per sua inclinazione è portata a definire prima di tutto il proprio campo d’azione. Le etichette, le definizioni, in sede di ricerca, non funzionano come delle griglie, ma sono strumenti da cui partire per espandere la riflessione: non si può studiare qualcosa se prima non se ne definiscono i termini. Micali, dunque, definisce il postumano non come «una figura dell’Altro non-umano, bensì una figura dell’umano come Altro: il tentativo di immaginare ciò che si produrrebbe da un vero incontro con l’alterità, dall’accogliere la differenza, e più in generale dall’abbandono delle visioni essenzialiste dell’identità».
Dunque, studiare l’immaginario postumano delle narrazioni di genere significa tenere conto non solo dell’umano, ma esplorare l’orizzonte verso cui potrebbe andare il mondo, ragionare sul cambiamento in sé e sul nostro approccio a tale cambiamento. Così, le creature non-umane delle storie di fantascienza, le protagoniste indiscusse di questo saggio, possono, secondo Micali, essere considerate «strumenti concettuali per ripensare e ridefinire la natura, la posizione e il destino dell’uomo nel mondo».
In questo senso, appare molto interessante la riflessione che la studiosa porta avanti sulla “voce” del mostro. Pensate al significato del racconto in prima persona della Creatura di Frankenstein, che tanto ha influenzato tutta la fantascienza a venire. Dare voce a un’entità per noi aliena, nel senso etimologico del termine di altrui/estraneo, presuppone un ribaltamento di prospettiva e dunque un riconoscimento empatico da parte del pubblico.
La più grande potenzialità insita nella fantascienza sembra dunque quella di permetterci di superare l’idea che alcune costruzioni culturali siano immutabili, quando invece metterle in discussione potrebbe essere la via per arrestare alcuni processi di autodistruzione (pensiamo, per esempio, all’emergenza climatica) di cui siamo responsabili. In un certo senso, superare il modello antropologico classico che vede l’essere umano al centro sembra una strada più o meno ottimista verso l’idea di una nuova umanità capace di accogliere l’alterità e il cambiamento.
Per dirlo con le parole di Simona Micali, «accettare che l’umanità non sia più l’unica unità di misura e di comprensione – logica, etica, sentimentale – del reale. […] passare da una concezione antropocentrica a una postumana». Quindi, la fine del mondo – o meglio di UN mondo, quello che noi conosciamo – potrebbe essere considerata solo la fine di una prospettiva e l’inizio di un’altra? Vi avevamo detto che Creature è un saggio fatto di domande, più che di risposte, e questa è la cosa migliore che può fare per noi un libro di questo tipo.
___