Abbiamo intervistato Mario Caramitti, professore di slavistica e traduttore della nuova edizione di Alla vigilia di Ivan Turgenev, pubblicata da Carbonio Editore.
di Cristina Resa
Carbonio Editore ha, da qualche anno, messo in atto un’operazione di recupero di grandi o piccoli classici dimenticati, oppure di quei libri presenti sul mercato ma in traduzioni un po’ datate. Per farlo, ha creato una collana dal titolo eloquente, “Origine”. In questa collana ha da poco pubblicato Alla vigilia di Ivan Turgenev, autore considerato tra i padri della letteratura russa.
Scritto nel 1859, alla fine di un decennio di grandi sconvolgimenti in Russia, racconta i fatti che precedono lo scoppio della guerra di Crimea del 4 ottobre 1853. La protagonista è una giovane testarda, figlia di aristocratici russi, di nome Elena, che si innamora di un rivoluzionario bulgaro che sogna di liberare la sua patria.
La nuova edizione di Carbonio Editore è tradotta da Mario Caramitti, professore associato di slavistica all’Università La Sapienza e autore di numerosi studi sulla letteratura russa contemporanea. E proprio con il professor Caramitti, parliamo di Alla vigilia di Ivan Turgenev e della necessità di ritornare sulle traduzioni per dare nuova vita ai classici e renderli più accessibili.
Professor Caramitti, innanzitutto parliamo del perché? Perché una nuova traduzione di Alla vigilia? A quali esigenze risponde?
In commercio non era presente una traduzione della Vigilia da almeno vent’anni. Questa è una premessa indispensabile, ma non è l’unica ragione che stimola a ritornare sui testi. La vera esigenza è proprio la diversa mortalità delle traduzioni. Ci sono traduzioni di Agostino Villa, di Alfredo Polledro, che hanno ottanta o novanta anni e, al netto di un invecchiamento naturale della lingua, sono ancora perfettamente fruibili. Ci sono traduzioni molto più recenti, degli anni ‘70 e ‘80, legate a un certo schematismo di assoluta fedeltà al testo originale, che suonano molto innaturali, pesanti e ardue alla fruizione.
Tutte queste premesse insieme portano a dover scegliere di raccontare di nuovo al pubblico un testo piuttosto che un altro. Spesso influisce la richiesta. E quindi un classico di fascia mediana quale può sembrare Turgenev in una letteratura straordinariamente ricca come quella russa dell’Ottocento, è un polo di potenziale attrazione anche commerciale. Questo anche perché viene sollecitato meno rispetto all’enorme quantità di versioni di Dostoevskij o Tolstoj, che a volte sono fini a se stesse, sono meno necessarie quando non si rivelano peggiorative rispetto ai testi cardine di letteratura d’arrivo in lingua italiana che già ci sono.
Nella sua introduzione si chiede se “un testo di centocinquant’anni fa possa essere trattato oggi come una novità editoriale”. Cosa rende, dunque, Alla vigilia un romanzo tanto importante all’interno della storia della letteratura russa e di così grande interesse per un pubblico contemporaneo?
Ci sono due fattori fondamentali sui quali si può discutere se si pensa, come ha fatto Carbonio con la mia collaborazione, di introdurre qualcosa di avvertibile come nuovo. E sono la non reperibilità e la relativa non notorietà del testo in quanto tale. Pensando a Turgenev, il lettore italiano medio può conoscere gli elementi essenziali della trama di Padri e figli. Può conoscere qual è l’atmosfera di Memorie di un cacciatore e secondo me più o meno è sufficiente. Se parliamo invece di testi storici come quelli di Gogol o Čechov, il lettore non si approccia come a qualcosa che deve scoprire, semplicemente si avvicina a questi testi come a un pezzo di eredità comune, ma manca la componente di una potenziale nuova percezione.
Dunque, se un traduttore si basa su quel presupposto fondamentale dell’attualizzazione, cioè tradurre per far arrivare al lettore italiano di oggi esattamente lo stesso testo, con tutte le perdite che ovviamente sono inevitabili, che percepiva il lettore russo del 1860, naturalmente l’illusione di novità ci può essere, ulteriormente accentuata da questo tipo di approccio traduttivo. In più, Alla vigilia ha le carte in regola per essere un testo da fruire, da leggere a tanti livelli, compreso quello del puro diletto. Per cui mi sono dovuto porre nell’introduzione una questione sciocca, che però in questo contesto diventa importante: rivelare o no il finale? Rivelare il finale di Anna Karenina sembrerebbe un po’ superfluo come problema del recensore. Invece nel nostro caso si pone e ho dovuto trovare un escamotage per accontentare un po’ tutti.
Una traduzione è sempre frutto di interpretazione e compromessi, perché si basa quasi sempre sulla similitudine, sulla somiglianza, sulla scelta di sfumature. A maggior ragione quando un testo viene dal passato, ma all’epoca si presentava incredibilmente contemporaneo, come Alla vigilia. Dunque, la persona che traduce è messa di fronte all’esigenza di fare delle scelte: cercare di rendere la lingua, in questo caso, ottocentesca o restituirne lo spirito aggiornando il linguaggio. Come ha lavorato sul testo da questo punto di vista?
La scelta è stata assolutamente radicale, ovvero quella di prendere al volo l’occasione rara offerta da Turgenev, che si isola proprio per questo chiarissimo schiacciamento della prospettiva sul presente del 1859, della rilettura a posteriori di eventi appena accaduti al momento della stesura, che possono essere raccontati con uno scorcio ravvicinato. Questo funziona benissimo nel testo russo. Ci sono dei testi di Dostoevskij, per esempio, che sono raccontati in presa diretta. Questo tipo di approccio era eccezionalmente utile per il lettore dell’epoca, che sentiva quasi il racconto della propria quotidianità e della propria contemporaneità. Tale presa diretta, però, spostata nel tempo lungo, non è più attuale, è in realtà un “tempo astratto”. Quindi, tutti i vantaggi di cui usufruiva il lettore contemporaneo si perdono oggi. Tradurre con le stesse intensità un testo di Dostoevski può comportare dei problemi.
Invece, questa prospettiva vicinissima, accorciata, di Turgenev si può sfruttare ancora oggi, superando il vincolo del passato remoto, che secondo me è un tempo ormai completamente estraneo all’italiano comune. Ecco, vi assicuro che provare a tradurre Dostoevskij o Tolstoj senza passato remoto è quasi impossibile. Forse arriverà il giorno in cui ci proverò, ma servono dei presupposti che forse ancora oggi non ci sono in quel confine sottile tra italiano comune e lingua della letteratura che non è mai ben fissato, e ancora peggio è fissato nelle traduzioni.
Dunque ho colto l’occasione e l’ho sfruttata fino in fondo. Ciò non significa che sia stato un compito agevole, perché scrivere in italiano senza passato remoto è molto complesso per gli scrittori stessi, che lo fanno sempre più corposamente, scegliendo di solito una prospettiva di assoluta contemporaneità tra la posizione di chi racconta e i fatti raccontati. Ciò non poteva funzionare per Turgenev, quindi ho lavorato su questa linea di prospettiva accorciata che fa uso di una sintassi italiana tutta da reinventare, basata sul presente storico e integrata con dei salti temporali che vengono resi con il passato prossimo e delle scanalature di pregresso che vengono rese con il trapassato prossimo. Il lettore potrà, in alcuni punti, avere dei dubbi e avrà forse ragione, ma è un patto che io, traduttore, chiedo di accettare.
L’iterazione di questi tre tempi crea una sintassi che non è classificabile nell’italiano di oggi e che è però l’unica possibile. Se si fa il confronto con il francese, la lingua fra quelle romanze che è andata più avanti nel superamento dei tempi analoghi al passato remoto, in questa lingua è stato totalmente sdoganato il passé composé, corrispondente al passato prossimo, come tempo narrativo. Dunque, da parte del lettore c’è una percezione immediatamente naturale del passato prossimo che utilizziamo per raccontare ciò che abbiamo fatto ieri come tempo della narrazione. In italiano per qualche motivo non si è ancora in questa fase e quindi non si può usare il passato prossimo con tale funzione narrativa. É molto divertente vedere traduzioni dal francese che riproducono in italiano tale e quale quel tempo di partenza, generando una sintassi molto più strana e molto più innaturale di quella che ho provato a ricostruire.
Trovate la versione audio di questa intervista nel diciassettesimo episodio di INDIE – Libri per lettori indipendenti, il podcast di PDE.