Un’ottima occasione per vedere una bella mostra romana? Shepard Fairey al Gam.
Shepard Fairey è diventato una star globale nel 2008, in piena campagna elettorale americana, grazie al suo virale ritratto di Barak Obama. In quel momento il mondo, o per meglio dire i telegiornali, la stampa generalista e i suoi lettori, si è accorto di lui. Ma Fairey era una figura di crescente popolarità e influenza, già da parecchi anni anche ben fuori dall’underground. Una rincorsa decisa e lineare, avviata all’indomani del diploma all’Accademia di Arte. Nel 1989, l’ancora diciannovenne graffitista immerso nel mondo degli skaters, decide di applicarsi a una tecnica di street art economica, veloce e poco pericolosa dal punto di vista del rapporto con la legge: gli stickers. Invece delle lunghe sedute richieste dalla realizzazione di murales con bombolette e markers, sempre a rischio di venire beccati dalla polizia, molto meglio realizzare con tutta calma le proprie opere a casa e poi applicarle velocemente e pulitamente ai muri, alla segnaletica, alle saracinesche, ovunque si decida di operare.
Da Andre the Giant alla Torre Eiffel
E proprio come sticker nasce Andre the Giant, sintetico e iconico avatar “preso in prestito” al lottatore André “the Giant” Roussimoff. Gli stickers di Andre the Giant, iniziano a comparire ovunque per le strade di Charleston, poi della Carolina, e da lì, grazie alla diffusione permessa dalla rete, in tutti gli Stati Uniti. Le diverse edizioni di Andre, sempre più stilizzato, sono accompagnate dal perentorio, orwelliano invito “Obey”, obbedisci!
Andre the Giant, il volto impenetrabile, lo sguardo dolente e disumano, accompagnerà il suo creatore per anni e ne seguirà l’evoluzione tematica e stilistica. Intanto Fairey passerà dalla ruvidezza punk degli esordi al nitore della produzione successiva, in cui alle fondamentali suggestioni neocostruttiviste – con tutte le frecce, i punti esclamativi, gli slogan presi di peso dai manifesti di Rodčenko -, vanno affiancandosi le sinuosità neoliberty della grafica hippie del ventennio precedente, la forza sintetica della propaganda rivoluzionaria – Cuba, Vietnam, Black Power -, mandata a sbattere contro la speculare forza suggestiva della pubblicità anni ’60, l’età dell’oro dell’American Way of Life, in un corto circuito sempre più esplicitamente politico e sociale.
Ambiente, questione femminile, Black Lives Matter, sfruttamento economico. Non c’è territorio della critica sociale che Obey, come ben presto ha iniziato a essere conosciuto Shepard Fairey, non affronti, con tecniche grafiche sempre più raffinate, con un “copywriting” altrettanto sorvegliato e con una ampia opzione di ambiti d’intervento, dai grandi murales in giro per il mondo alle mostre nelle più prestigiose sedi museali, dai video al web, dalle copertine di libri (celebre la sua interpretazione di 1984 e de La fattoria degli animali per l’edizione Penguin dei due capolavori di George Orwell) a poster e stickers, l’antica, originaria passione.
La mostra romana
La mostra romana Shepard Fairey. 3 Decades of Dissent, al Gam fino al 22 novembre, ripercorre, con una scelta mirata e rappresentativa, 30 opere, una per ogni anno di attività, tutta la carriera di Shepard Fairey, dalla prima apparizione di Andre the Giant fin oltre Earth Crisis, la grande installazione parigina del 2015 – una gigantesca sfera blu appesa alla Torre Eiffel! – in occasione della Conferenza mondiale per il clima COP21, e mette in risonanza il lavoro dell’artista americano con il meglio dell’arte italiana del ‘900. I curatori infatti, Claudio Crescentini, Federica Pirani e Wunderkammern, hanno chiesto all’artista americano di scegliere altrettante opere dalle raccolte di Roma Capitale, perché fossero esposte a fianco delle sue secondo criteri di volta in volta tematici, di filiazione diretta, di affinità o per mere coincidenze stilistiche.
Ne è nato un curioso e fruttuoso dialogo, che vede il coltissimo skater e street artist dialogare di volta in volta con Renato Guttuso e Giulio Turcato, Mario Schifano o Fortunato Depero, Scipione e Giacomo Balla, Pino Pascali e Carla Accardi. Il catalogo, realizzato dagli stessi curatori della mostra e pubblicato da Silvana Editoriale non solo riporta le opere di Fairey e quelle dei diversi artisti a lui “affiancati”, ma ospita un’importante apparato di saggi e interventi che ripercorrono la vicenda artistica di Obey e ne indagano i rapporti con l’arte di oggi e di ieri.