Cos’è la Tavoletta dei Destini? E cosa ci dice sul mondo? Roberto Calasso ci porta in un viaggio indietro nel tempo, prima del Diluvio
di Cristina Resa
«Sinbad era di nuovo confuso. Udiva nomi ignoti, suoni che non appartenevano alla sua lingua. E qualcuno gli parlava come se sapesse tutto della sua vita». In questa frase, che apre il secondo capitolo di La Tavoletta dei Destini, si condensa tutto quello che si deve sapere sul nuovo nuovo libro di Roberto Calasso, appena pubblicato da Adelphi.
Sinbad, il celebre marinaio del VIII-IX secolo protagonista di un ciclo di storie di origine persiana, che ha attraversato i mari e vissuto fantastiche avventure, siamo noi. Proprio noi lettrici e lettori, che ci avviciniamo al libro di Calasso come se fosse un oggetto magico, perché pieno di strani miti, eroi e dèi che non fanno più parte della nostra cultura popolare. Ma lo sono stati, in un tempo lontano.
Sinbad è in qualche modo l’unico personaggio di La Tavoletta dei Destini che conosciamo bene. Eroe di mille storie che ci hanno raccontato da bambini e che abbiamo letto da adulti, ha ispirato film, fumetti e videogiochi. Sinbad è rimasto con noi per tutti questi secoli. Utnapištim, Enlil, An/Anu, Enki/Ea, invece, sono nomi che percepiamo estranei, lontani.
Eppure le loro vicende hanno fondato la nostra civiltà. Questo libro è il tentativo di restituire familiarità a quei nomi provenienti da lingue (il sumero e l’accadico) e culture sconosciute ai più.
Undicesima parte di un cammino iniziato anni fa da Roberto Calasso con La rovina di Kasch, ispirato a una leggenda africana del Sudan, La Tavoletta dei Destini non rappresenta certo un saggio di mitologia. È un racconto di racconti. Una grande storia d’avventura per riflettere sul mondo antico e contemporaneo.
Sinbad e Utnapištim si incontrano
Il marinaio Sinbad approda a Dilmun, la «terra dove sorge il sole», scenario del mito sumerico della creazione e luogo in cui vive da millenni l’eroe del Diluvio Universale.
Figura centrale della mitologia mesopotamica, questo personaggio ha preso nel corso dei secoli numerose forme e nomi. È stato Ziusudra (che significa “vita dai giorni prolungati”) nella tradizione sumerica; Utnapištim (“colui che ha trovato la vita”) nelle ultime tavole della versione classica babilonese dell’Epopea di Gilgameš; Atraḫasis (“il molto saggio”), nel poema babilonese omonimo sul Diluvio, conosciuto attraverso frammenti di epoche differenti.
Utnapištim è a Dilmun in attesa. Nessuno è più giunto da lui da quando Gilgameš, il divino sovrano di Uruk, lo ha cercato per conoscere il segreto della sua immortalità. Il saggio accoglie Sinbad nella sua tenda e i due cominciano a parlare.
Prima del Diluvio
Da dove cominciare a raccontare la storia del mondo? «Da qualsiasi punto si potrebbe. Ma un uso antico vuole che tutto cominci dagli dèi» ci dice l’Utnapištim di Roberto Calasso, mentre si appresta a parlare, prima di tutto, delle sue origini.
La storia dell’uomo diventato simile a un dio, infatti, inizia «quando gli dèi erano come l’uomo» (inūma ilū awīlum, come recita l’incipit dell’Atraḫasis), soggiogati dal lavoro e dalla fatica.
Per sedare le rivolte degli dèi celesti Igigi, costretti alla corveé, i principi divini Anunnaki avevano, dunque, deciso di creare degli esseri che potessero sostituirli nelle attività manuali. Fu Enki, il dio sumerico delle acque sotterranee, conosciuto in accadico come Ea, a creare il primo uomo mescolando del sangue divino all’argilla.
Dopo 1200 anni, però, gli Anunnaki si erano stancati del baccano prodotto da quella moltitudine di esseri umani. Nonostante il disaccordo con Enki, il dio della tempesta Enlil aveva deciso di annientarli tutti.
A quel tempo Utnapištim era il protetto di Enki. Su suo consiglio, decise di costruire un battello dove ospitare uomini e animali, per salvare i viventi dal Diluvio. Come premio per l’impresa – o, potremmo azzardare, punizione per la disobbedienza? – gli fu concessa una vita simile a quella degli dèi, senza fine, a Dilmun.
Questo è solo uno dei racconti inclusi in questo volume di Adephi, che contiene tutti i principali miti della tradizione mesopotamica: dalla Discesa di Inanna negli Inferi al poema cosmogonico babilonese Enūma Eliš, passando per diversi episodi dell’Epopea di Gilgameš e il mito di Anzû, l’aquila leontocefala, che rubò a Enlil la Tavola dei Destini e venne affrontato dal dio Ninurta.
La Tavoletta dei Destini
Ci sono due nomi di grandi scrittori che vengono in mente, durante la lettura di La Tavoletta dei Destini: Italo Calvino e Jorge Luis Borges.
Il naufrago Sinbad e l’antico saggio Utnapištim dialogano come facevano Marco Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Khan in Le città Invisibili, ma a parti invertite. Sinbad ha visto tutto il mondo come Marco Polo, ha raccolto storie da ogni angolo dei mari. Utnapištim ha vissuto migliaia di anni a Dilmun, imprigionato nella sua immortalità. Eppure, ha visto e conosce tutto, prima e dopo il Diluvio. Conosce storie che Sinbad non ha mai sentito, ma che in qualche modo parlano anche di lui.
In compenso, il labirintico gioco meta-letterario con cui Calasso restituisce, più che nel contenuto, nella sostanza filosofica, la cosiddetta Tavoletta dei Destini, ricorda,per modalità e spirito le immaginifiche (ri)creazioni di Borges.
Ma cos’è la Tavoletta dei Destini? È un mitico oggetto – chiamato in lingua accadica ṭup šīmātu o ṭuppi šīmāti, in sumerico DUB.NAM.(TAR).MEŠ – che garantisce alla divinità principale del pantheon una posizione predominante sugli dèi e gli uomini. Il possesso della tavoletta spetta a Enlil, il dio sumerico della tempesta (anche se nel mito di Ninurta e la tartaruga è custodita da Enki), mentre nella tradizione tardo babilonese passa nelle mani di Marduk, re degli dèi e protettore di Babilonia.
Si tratta di una tavoletta d’argilla scritta in cuneiforme, autenticata con impressioni di sigilli cilindrici, come era uso in Mesopotamia per i documenti legali. Descritta in alcuni testi come “legame cosmico che collega il cielo all’Oltretomba”, conferisce l’autorità suprema sull’Universo e dà al possessore il potere di determinare i destini.
L’idea di «destino» nella psicologia mesopotamica
Piccola divagazione filologica. È sicuramente interessante notare come il termine sumerico traducibile come «destino», NAM.TAR, letteralmente «ciò che è stato tagliato», sia stato usato come nome di una demone, una divinità infera minore della corte della dea dell’Oltretomba Ereškigal e sia collegato alla sfera semantica della malattia.
La lingua accadica, invece, adopera la parola šīmtu, con il significato di «quello che è stato fissato». Un termine usato spesso in relazione alla morte (nei testi è frequente l’utilizzo dell’eufemismo ana šimti alāku, «andare al proprio destino»), che sembra indicare il «consumo della quota di vita e di buona sorte», la porzione di vita assegnata a ciascuno dagli dèi.
Nella psicologia mesopotamica, dunque, l’idea di destino appare strettamente collegata a quella di morte. Affidare la narrazione delle tante storie racchiuse in La Tavoletta dei Destini all’unico personaggio umano a cui è stato concesso di vivere eternamente, di non “andare al proprio destino”, ma a costo di guardare il mondo dai margini, senza poterne far parte, è una scelta ispirata.
Aiuta a fare un passo indietro, a guardare noi stessi, il mondo e i miti da una prospettiva più ampia. A riflettere su cosa siano la vita e la morte e, soprattutto, sulle modalità con cui abbiamo, fin dalla notte dei tempi, cercato di dar loro senso e sacralità.
Noi, qui, abbiamo cercato di darvi alcune coordinate per scoprire questo testo breve ma densissimo. Non vogliamo dirvi altro, sappiamo che troverete le vostre risposte in queste pagine. Come Sinbad, state per intraprendere un viaggio straordinario.