Paolo Quilici ha scritto un viaggio tutto da leggere nel paese più cool d’Oriente. Lo presentiamo su #PDESocialClub. E intanto abbiamo chiesto di recensirlo a Raffaele Cardone
Una bandiera nazionale che ha al centro un simbolo che allude allo yin e yang, contornato da quattro trigrammi del Libro dei Cambiamenti, è un biglietto da visita insolito anche per un Paese dell’estremo oriente. Stretta tra due giganti dell’economia e della cultura come sono Cina e Giappone, la Corea del Sud è rimasta fino a ieri un po’ ai margini dei nostri interessi, almeno quelli turistici. Dopo l’esplosione del K-pop, delle serie tv e dei film d’autore coreani, dopo che automobili, elettrodomestici, design, computer e cosmetici Made-in-Korea sono presenze stabili nelle nostre vite europee, la Corea del Sud è sicuramente diventata un brand popolare, soprattutto tra i giovani, ma ancora tutta da svelare. Ci pensa Paolo Quilici con We Love Korea, fresco di stampa per Cairo editore. Con una formazione da biologo marino (quindi osservatore provvisto di metodo) e una carriera da autore televisivo (quindi con un occhio supersveglio per la contemporaneità) di programmi e reality al top degli ascolti, come L’isola dei famosi, X Factor, La fattoria, Pechino Express, Quilici flirtava con la Corea molto prima che diventasse di moda. Ed è grazie agli incontri, alle esperienze, e a una sensibilità coltivata per anni che ci introduce al Paese con una formula originale ed efficace: prenderci per mano e portarci in giro nella vita quotidiana di un popolo che ha sorprendenti corrispondenze con noi, tanto da avergli fatto guadagnare l’etichetta di “italiani dell’estremo oriente”.
Raffaele Cardone recensisce il libro di Paolo Quilici We Love Korea (Cairo Editore) e giovedì 27 gennaio alle 18.00 intervisterà l’autore ai microfoni di #PDESocialClub. Come sempre, l’intervista in streaming potrà essere seguita sulle pagine Facebook e sul sito di PDE e di Cairo editore, sulla pagina YouTube di PDE e sui profili Facebook delle librerie che decideranno di condividere col proprio pubblico la presentazione.
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di Raffaele Cardone
In questa sorta di anti-guida turistica scritta apposta per farci venire l’acquolina in bocca, metterci sui binari giusti per entrare in comunicazione con la vita e con la gente, Quilici ci dice moltissimo della Corea e dei coreani, a partire da una passione condivisa, quella per il cibo che è giocoforza un leit-motiv, la porta d’ingresso più evidente per condividere la coreanità. Tanto per fare un esempio, l’intercalare dopo l’equivalente del “ciao, come stai” è “hai mangiato?” Pur essendo una cucina orientale a tutti gli effetti, quella coreana accoglie di quel modo di mettersi a tavola i caratteri più eleganti, la centralità dei contorni, la qualità dei tagli di carne e di pesce. Stile insomma, ma a basso costo, tanto che cucinare in casa praticamente non conviene, e piccante, molto piccante, ma con pochi grassi, molti cibi fermentati, molte verdure. E alcool, birre e distillati di ogni gradazione, dei quali i coreani sono ai primi posti nei consumi pro capite mondiale. Stile anche nel vestire, tinta unita, sobrietà, equilibrio, eleganza: niente dev’essere fuori posto anche se ci si veste informale. Unica deroga, quella concessa alle signore di una certa età: loro sì devono essere colorate e sgargianti dalla testa ai piedi, ma ovviamente con uno stile che ha un suo nome, ajumma.
Coreanità vuol dire anche valori famigliari, rispetto per i più anziani e per la comunità (qui ci battono di qualche lunghezza) al punto che il Paese è uno dei più sicuri del mondo. E a modo suo bacchettone: passino le nonne ye-ye, ma no all’uso di droghe, all’LGBTQ+; no all’interruzione di gravidanza, fumare sigarette è mal visto, sui treni e mezzi pubblici si sta zitti (lì, almeno, per fortuna): il principio guida sembra essere quello di non mettere in imbarazzo, dunque ci si adegua alla correttezza nei comportamenti e a una certa moderazione. Quilici non manca di ricordarci alcune particolarità di questo mix unico tra innovazione e tradizione: metà della popolazione non ha un credo religioso, ma il 25 % è cristiana, e poco meno del 20% buddista, caso veramente unico in oriente. Così come unica è la lingua: il coreano, a differenza del cinese e del giapponese, è un alfabeto, un’invenzione introdotta all’epoca del nostro Rinascimento per favorire l’accesso alla cultura.
Il territorio di gioco principale è Seoul, la megalopoli che accoglie 25 dei 37 milioni di coreani, un po’ stretti su un territorio che è giusto un terzo di quello italiano, ma dove tutto funziona perfettamente, ci si sposta ovunque in metrò o in taxi, si mangia ovunque e bene, l’inglese è abbastanza diffuso (apprenderlo è quasi un’ossessione nazionale) e per le attività culturali o per una passeggiata non c’è che l’imbarazzo della scelta. Seoul offre pochi monumenti, molte esperienze, socialità, e le peculiari offerte di ogni quartiere: lo shopping è letteralmente una festa. Tutte cose che nei K-drama non possiamo vedere bene ma che Quilici conosce per esperienza diretta e approfondita e alla quale sa dare un tocco diretto, brioso, ben informato, e sempre in grado di spiegare e coniugare le contraddizioni. We Love Korea è letteralmente un vademecum, una chicca che può anche essere una semplice evasione per chi viaggia, seduto in poltrona, con la fantasia. Chissà che prima o poi non ci si faccia un salto: la Corea del Sud, infatti, è a portata di mano anche per chi non ha un budget consistente; lontana, esotica, e al tempo stesso molto vicina e accogliente, dove provare a essere un po’ coreani senza patemi, e con divertimento.