Quando, in una storia d’amore, arriva il momento di dirsi addio, si spalancano universi interiori spesso inaspettati. Nasce l’urgenza di esprimere o confessare qualcosa di vitale all’amato perduto o lasciato. In quell’addio prendono forma reale pensieri sino ad allora taciuti, ignorati o messi al bando. Ed è proprio mentre si precipita in un abisso senza fondo, che si decide se lasciarsi andare o aprire un paracadute per salvare quello che si può: in cosa muterà mai l’amore, se riuscirà a farlo, e in questo volo imprevisto o indesiderato sarà dolce o amaro il sapore del suo addio?
Sono davvero infiniti i modi per dirsi addio, così come sono infiniti i colori di cui ogni storia d’amore dispone per tessere la propria trama. Come dirti addio. Cento lettere d’amore da Saffo a Garcia Lorca di Cristina Marconi, da poco pubblicato da Neri Pozza, ci fa immergere in un mondo che di certo non ignoriamo, ma che probabilmente in noi ha avuto un profumo, un suono o un’immagine differenti. Dove ha inizio l’addio e dove finisce?
In questo tumultuoso e appassionante viaggio attraverso i secoli, le protagoniste sono le parole contenute in tutte queste lettere d’amore, provenienti da ogni epoca e da ogni continente, e dove, a volte, diventa difficile distinguere una finzione letteraria da una storia autentica, sarà forse perché è sincero in egual modo il moto dell’anima di chi scrive? In queste lettere, dove grandi nomi si mescolano a storie e personaggi meno noti, tempo e spazio diversi dimostrano come il sentimento dell’amore viva sempre di attimi struggenti, ricchi di estrema dolcezza o di terribile strazio, quando gli amanti, per un motivo o per un altro, non hanno altra scelta che dirsi addio.
Cos’è, quindi, l’addio, nella mente e nel cuore di chi lo sceglie? A volte significa prendere le distanze dall’amato con grande coraggio per parlare con distacco, forse un giorno, di quello che ormai sarà solo un antico amore, scrive Rodolphe Boulanger alla sua bella Emma Bovary, altre volte vuol dire lasciare all’amato la parte migliore di sé, cercando almeno di conservare con lui una buona amicizia, così come confida per iscritto Martine al suo caro Marcel Proust, al quale non era riuscita mai a dirlo.
Altre volte dirsi addio è quasi necessario, perché ci sono altre priorità a vincere su quelle dell’amore, così come scrive Hannah Arendt a Martin Heidegger: «Avrei perso il mio diritto alla vita, se perdessi il mio amore per te; ma perderei questo amore e la sua realtà, se mi sottraessi al compito a cui esso mi spinge», o Zelda a Francis Scott Fitzgerald: «Sono sempre leale alle idee che ci hanno tenuti insieme così a lungo: la convinzione che la vita sia tragica, che la ricompensa spirituale per un uomo consista nel rimanere devoto alla propria fede».
Altre volte dirsi addio è una tappa obbligatoria nel percorso, perché l’amore ha fatto il suo tempo, poiché, c’è chi crede che, come la vita, anch’esso giunga prima o poi al suo termine, e solo gli stolti possono credere a questa illusione, cadendo nel fatale tranello dell’abitudine: «La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, – scrive Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz – e crede di continuare ad amare perché ha contratto l’abitudine di sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non ci sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perché non possono credere che l’amore sia duraturo, né, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato. Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perché non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le altre cose che sono solo parti della vita? Né lei, Ophelinha, né io, abbiamo colpa di tutto questo. Solo il Destino ne avrebbe la colpa, se il Destino fosse una persona a cui potere attribuire delle colpe».
Che sia colpa del destino o volontà divina, in un addio la speranza è spesso dura a morire, aggrappandosi alle domande che creano più sofferenza nell’amante: «Oh Dio, perché si deve star lontani da chi si ama tanto? – scrive Beethoven alla sua Amata immortale – Non è una creazione del cielo il nostro amore?».
Quando si dice addio a qualcuno la più grande paura resta sempre quella di perdere tutto: «Un giorno ti ho dato, dal profondo del cuore, tutto ciò che posseggo e tutto ciò che sono. – scrive Albert Camus a Maria Casarès – Non voglio che ci separiamo con un misero sguardo che caricheremmo invano di ciò di cui non può essere caricato. Desidererei che mi serbassi nel cuore il posto privilegiato che in rari istanti mi era parso di meritare. È una misera speranza, ed è la sola che mi resta. Addio ancora, tesoro mio, e che il mio amore ti protegga. Ti abbraccio, ti abbraccio per tutti questi anni senza di te».
La sofferenza più grande di un addio è quella di non riuscire a dimenticare facilmente l’amato, così come confida il Marchese de Sade a Mademoiselle Colet: «Addio. Soffro a parlarvi così, poiché sono abbastanza infelice per il fatto che non siate ancora del tutto cancellata dal mio cuore. Addio per l’ultima volta. Parto, e adesso trovo altrettanto piacere ad allontanarmi da voi di quanto ne provavo un tempo ad avvicinarmi». L’addio procura dolore, ma non ferite mortali: «Non devi aver paura che io mi senta sola se mi lasci, perché spesso mi separo da cose che immaginavo di aver amato, – scrive Emily Dickinson alla cara amica Susan Gilbert – perciò il mio cuore sanguina così spesso che non farò caso all’emorragia, e aggiungerò solo un’altra agonia alle tante che l’hanno preceduta».
Si può sperare di essere felici dopo essersi detti addio? A volte occorrerebbe una vera e propria magia: «Mia carissima Fanciulla, vorrei che inventassi un qualche modo per rendermi felice senza di te. Non posso sopportare sprazzi di luce per poi tornare nelle mie tenebre. – scrive John Keats alla sua dolce Fanny Brawne – Esser felice con te sembra talmente impossibile! Richiede una Stella più fortunata della mia! Non avverrà mai». Altre volte servirebbe una vera e propria amputazione di tutti quei pensieri che non ci permettono di andare avanti: «Ti scrivo per farti sapere che ti lascio libero, che ti sto amputando. – scrive Frida Kahlo a Diego Rivera – Questo è tutto, ora posso andare in pace a farmi tagliare a pezzettini. Addio da una persona che è pazza e furiosamente innamorata di te».
Altre volte ancora può bastare anche solo una promessa: «I miei occhi saranno sempre su di te» scrive Richard Burton a Elizabeth Taylor. Una promessa in grado di andare oltre il tempo che conosciamo, soprattutto quando l’addio non è determinato dalla fine dell’amore: «Carissima Marianne, questo mio vecchio corpo, così come il tuo, ha ormai rinunciato a combattere e, da un giorno all’altro, sto aspettando che mi arrivi l’avviso di sfratto… – scrive Leonard Cohen a Marianne Ihlen – Fai buon viaggio, amica mia, ci vediamo tra poco in fondo al viale… con amore e gratitudine».
Un addio, infine, può essere anche un modo per dire grazie, quando è arrivato il tempo di congedarsi: «Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe potuto essere. – scrive Virginia Woolf a Leonard – Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi».
Come dirti addio. Cento lettere d'amore da Saffo a Garcia Lorca
Cristina Marconi
NERI POZZA
VAI AL LIBRO- Genere:
- Listino:
- € 12.90
- Collana:
- Data Uscita:
- 12/05/2022
- Pagine:
- 0
- Lingua:
- EAN:
- 9788854524705