Quando pensiamo alla bellezza la associamo alla perfezione e all’armonia. Ci viene naturale, a questo punto, pensare che ci sia solo bellezza nell’arte e che, quest’ultima, scaturisca solo da essa. Eppure sembrerebbe che siano proprio i nostri limiti, quelli che ci rendono umani e imperfetti, a farci evolvere nel tempo, ma soprattutto a renderci creativi. E se ogni cosa fosse discutibile? E se l’arte, in fondo, fosse qualcosa in cui è possibile trovare ciò che non ci aspetteremmo mai? Potrebbe essere mai, l’arte, ricca di imperfezione, anche solo nel modo in cui essa stessa fosse stata concepita? Siamo sicuri di sapere davvero a cosa ci riferiamo quando parliamo di bellezza? Ci siamo mai chiesti quante volte, nei secoli, sia stata concepita diversamente da chi ci ha preceduto e quante volte ancora potrà cambiare nel tempo che abbiamo davanti a noi?
«La bellezza non è mai stata qualcosa di assoluto e di immutabile, – si legge tra le tantissime pagine di Sull’arte. Scritti dal 1955 al 2016 di Umberto Eco, una raccolta di saggi, articoli, interventi che compongono un vero trattato sull’arte, da poco pubblicato da La nave di Teseo – ma ha assunto diversi volti a seconda del periodo storico e del paese: e questo non solo per quanto riguarda la bellezza fisica (dell’uomo, della donna, del paesaggio) ma anche per quanto riguarda la bellezza di Dio, o dei santi, o delle Idee…».
Ed è proprio in questa sua incredibile mutevolezza che la bellezza, la prima dimora assoluta dell’arte, accoglie anche ciò che sembrerebbe esserle così distante, ma che in realtà a essa è intimamente connessa: la bruttezza, il cui concetto, afferma Eco, alla fine risulta relativo allo stesso modo di quello della bellezza. C’è però una grande differenza tra i due: mentre il bello è assenza di passione e distacco, quello che implica un giudizio estetico, il brutto è passione, e sembrerebbe condurci verso quelle sensazioni di disgusto e ripulsa che ben conosciamo. Eppure, il brutto, come il bello, ha un ruolo determinante nell’arte stessa: «Il momento in cui si prende veramente coscienza della centralità del brutto nella storia dell’arte è con l’inizio della sensibilità preromantica del sublime, – afferma Eco – e il sublime è la grandezza dell’orrendo, della tempesta, delle rovine. Chi forse esprime meglio questo sentimento romantico è Victor Hugo, nella sua prefazione al Cromwell (1827). Egli dice che “col cristianesimo, ripiegandosi su se stesso di fronte a così alte vicissitudini l’uomo cominciò ad avere compassione dell’umanità, a meditare sulle amare delusioni della vita. Fino ad allora la musa puramente epica degli antichi aveva escluso senza pietà dall’arte questo, pressoché tutto quello che non si accordava con l’indeterminato di bello».
Il sublime, che Eco definisce fratello germano del bello, sarà celebrato, racconta l’autore, dai teorici e gli artisti pre e protoromantici, che avranno il coraggio, a differenza di chi aveva vissuto in epoche classiche o classicheggianti, di confessare che la bellezza non è solo contenuta in tutto ciò che è proporzione e luce, ma anche in ciò che, al contrario, è sproporzionato e irregolare: «L’idea del sublime si associa anzitutto a un’esperienza non legata all’arte bensì alla natura, e in questa esperienza vengono privilegiati l’informe, il doloroso e il tremendo. Nasce il gusto per le architetture gotiche che, rispetto alle misure neoclassiche, non possono che apparire sproporzionate e irregolari, e proprio il gusto per l’irregolare e l’informe porta a un nuovo apprezzamento delle rovine».
Ed è proprio in quel posto dove abbiamo paura di mettere il piede, lì dove il brutto ci ripugna, ma allo stesso tempo stranamente ci attrae con la sua idea di perturbante, lì dove l’imperfezione ci rende incerti, ma con “il suo tempo imperfetto” ci regala spazio per muoverci e immaginare, lì dove la moltitudine di possibilità ci ammalia, ma allo stesso tempo ci confonde nella vertigine della lista, lì, in quel disordine la cui origine arriva forse dal Caso e la cui forma è quella che noi, quando siamo artisti o anche solo immersi nell’arte, diamo a esso, qualunque sia il punto del labirinto in cui siamo e che percorriamo dal momento in cui siamo nati, è proprio lì, in quel sublime «felicemente sproporzionato, che prospera nelle tenebre, nella notte, nella tempesta, nell’oscurità, nel vuoto, nella solitudine e nel silenzio», che troviamo posto per ammirare l’arte e la sua bellezza che ha il sapore di tutte queste cose.
Quale potrebbe essere il modo, tra tutti questi modi possibili, con cui un ipotetico visitatore del futuro potrebbe riconoscere l’ideale di bellezza tipico del nostro tempo? «Egli dovrà arrendersi di fronte all’orgia della tolleranza, al sincretismo totale, all’assoluto e inarrestabile politeismo della bellezza. – afferma Eco – L’essere umano è di spalle e, per una sorta di messa in scena teatrale, se il sublime è la scena, egli sta sul boccascena, dentro allo spettacolo – per noi che siamo in sala – ma rappresentando la parte di chi sta fuori dello spettacolo, in modo che noi siamo obbligati a separarci dallo spettacolo guardandolo attraverso di lui, mettendoci al suo posto, vedendo quello che lui vede, sentendoci sì come lui un elemento trascurabile nel grande spettacolo della natura, ma in grado di sfuggire al potere naturale che potrebbe sovrastarci e distruggerci. Ecco, credo che nel corso dei secoli l’esperienza del bello sia sempre stata quella che si prova stando così, come di spalle, di fronte a qualcosa di cui non facciamo e non vogliamo a ogni costo far parte. In questa distanza sta l’esile filo che separa l’esperienza della bellezza da altre forme di passione».
In questo trattato sorprendente, un opus magnum frammentario, discontinuo, divagante, stratificato e inintenzionale, dove confluiscono saggi, presentazioni, conferenze, articoli e Bustine di Minerva, tutti riorganizzati e riletti da Vincenzo Trione, in questo libro caratterizzato da un misto di originalità interpretativa, di curiosità intellettuale, di fantasia, di erudizione e di ironia, possiamo perderci piacevolmente oppure scegliere da quale prospettiva guardare ogni cosa, la stessa che cerchiamo quando osserviamo un’opera d’arte o vediamo uno spettacolo a teatro.
Nel frattempo, l’arte prosegue il suo cammino nel nostro tempo, con un’andatura che non ha delle vere regole, se non quelle che sceglie quando incontra il Caso: «E l’arte? Attentissima, le antenne tese, coglie confusamente la forma del nuovo mondo in cui l’uomo va abitando e cerca di esprimerlo come può e come deve, per figure. – racconta Eco – La scienza scopre il Caso? L’arte si butta a corpo morto sul Caso, e lo fa suo. C’è un romanticismo del Caso. Si sprizzano follemente tubetti di colore sulla tela stesa in terra, si picchia con un martello sul pianoforte: il Caso disegna le sue figure e il pittore le coglie e le riconosce per sue, il Caso orchestra i suoi rumori e il musicista li accoglie nella sua gamma priva di pregiudizi. Ma in verità, quanto più è artista, tanto più chiede aiuto al Caso ma infine lo addomestica, lo dirige, lo sollecita ma lo sceglie, lo accetta ma ne rifiuta una parte, non fa a caso le sue forme ma dà delle forme al Caso».
Sull'arte. Scritti dal 1955 al 2016
Umberto Eco
LA NAVE DI TESEO
VAI AL LIBRO- Genere:
- Listino:
- € 35.00
- Collana:
- Data Uscita:
- 19/05/2022
- Pagine:
- 0
- Lingua:
- EAN:
- 9788834609606