Il fatidico cinquantennale volge al termine e Skira festeggia raccogliendo in volume una scelta de I manifesti del maggio francese a cura di Bruno Stucchi
Li abbiamo negli occhi tutti quei manifesti, stampati in nero o rosso su bianco, lo slogan in francese, secco, diretto e spesso ironico o paradossale. Sono i manifesti del maggio ’68 parigino. E quando diciamo del maggio intendiamo proprio quel mese abbondante, dal 14 aprile, giorno in cui gli studenti di architettura occupano la facoltà e danno vita all’Atelier Populaire, al 28 giugno, quando la polizia sgombera la facoltà e mette di fatto fine all’esperienza dell’Atelier. In quella manciata di settimane i giovanissimi rivoluzionari sforneranno qualcosa come 350 manifesti a un ritmo forsennato in un’esplosione di comunicazione e creatività quasi senza paragoni. In I manifesti del maggio francese (Skira) Bruno Stucchi ha selezionato quarantacinque affiche e una manciata di slogan scritti a vernice direttamente sui muri delle città in rivolta e ne ha analizzato storia e caratteristiche. Perché oltre a essere un capitolo della storia europea che merita memoria, quei giorni e quel linguaggio hanno seminato effetti e ricadute per tutti i decenni a venire.
Chi è Gianfranco Manfredi
Abbiamo chiesto ad alcuni testimoni e protagonisti di quegli anni di recensire i Manifesti. Il primo a intervenire è Gianfranco Manfredi, che visse quegli anni da assistente universitario, facoltà di filosofia, alla Statale di Milano, e abbandonò ben presto il mondo accademico per intraprendere una carriera di musicista, cantando e satireggiando in note il mondo della sinistra extraparlamentare, passare poi al cinema come sceneggiatore e attore, scrivere una decina di romanzi spettacolari (Magia rossa, il suo esordio continua a essere ristampato) affiancando all’attività letteraria una carriera da autore di fumetti per Bonelli. Tra le sue ultime uscite, il romanzo Splendore a Shanghai (Skira), il saggio Ma chi ha detto che non c’è. 1977 l’anno del Big Bang (Agenzia X) e il fumetto Cani sciolti (Bonelli).
La recensione
“Duecento studenti dell’École des Beaux Arts realizzano più di trecento soggetti in quaranta giorni, creati, discussi, approvati, stampati, distribuiti e affissi per le strade.” Questa informazione che Bruno Stucchi sottolinea aiuta indubbiamente a ricordare in cosa si sostanziasse la cosiddetta “produzione spontanea” del movimento studentesco. Stucchi non si riferisce alle scritte murali casuali, ai dazebao vergati a pennarello, che magari cominciavano con caratteri grandi e poi finivano per mancanza di spazio in caratteri piccoli e con interlinee sempre più strette, tipo lettera di Totò dettata a Peppino. I manifesti del maggio francese, per quanto programmaticamente anti-Accademici, anti-commerciali (non li si creava per venderli), anti-museali (si precisava persino che collezionarli o appenderseli in camera significava tradirli) e urgenti (tuttavia, sorprendentemente, tutt’altro che caduchi ed effimeri in quanto espressione di una rivoluzione permanente, dunque di lunga, indefinibile durata), QUESTI manifesti erano prodotti dagli studenti degli istituti d’arte.
Qualcosa di molto simile ricorda Hanif Kureishi in un suo breve saggio del 1991: Otto braccia per stringerti pubblicato in appendice alla sua sceneggiatura Londra mi uccide (Anabasi, 1993). Scrive Kureishi, riguardo alla situazione inglese: “Alla metà degli anni ’60 i media erano in pieno sviluppo. C’era molta domanda di designer, grafici e simili. Nelle nostre lezioni di disegno ci preparavamo alla possibilità di scegliere un indirizzo artistico, disegnando tubetti di dentifricio e copertine di dischi. Il liceo artistico allora godeva di grande considerazione tra i ragazzi; aveva fama d’essere un ambiente anarchico, da cui erano venuti fuori la pop art inglese e numerosi gruppi musicali (…) I licei artistici erano tra le più importanti istituzioni britanniche del dopoguerra (…) ma i ragazzi erano destinati a essere inseriti nel mondo della pubblicità (…) La pubblicità era OK, ma ogni sterzata verso l’arte pura causava imbarazzo; era considerata pretenziosa. (…) A noi la normalità non bastava più. Desideravamo l’estasi, l’eccezionale, l’esaltazione… e subito!” Kureishi precisa molto bene le condizioni e le prospettive del lavoro grafico negli istituti d’arte: tutti avevano presente che alla prospettiva di un lavoro artistico d’eccellenza si era sostituita quella di un lavoro “decente”, come prospettiva di impiego e di guadagno, e indirizzato alla grafica, alla cartellonistica, ai prodotti di largo consumo, in forme tanto efficaci quanto semplificate, forme di sintesi estrema che non impoverissero però la forza e l’efficacia espressiva. Al contempo, le aspirazioni andavano molto al di là dell’utilità immediata, verso i confini dell’immaginario e verso forme espressive gratificanti, addirittura “esaltanti”.
Vorrei aggiungere, a quanto ricordato da Stucchi e da Kureishi, che i soggetti che proponevano, discutevano, approvavano, stampavano, diffondevano e attacchinavano erano GLI STESSI, cioè quel lavoro collettivo non dava luogo a divisioni del lavoro gerarchiche e consentivano di prendere coscienza e di fare pratica dell’intero processo, dall’ideazione alla produzione, dalla stampa alla distribuzione.
Un aneddoto personale. Al Collettivo di Filosofia dell’Università Statale occupata, a Milano, in epoca sessantottina, discutemmo, scrivemmo e approvammo uno dei tanti documenti che si sfornavano, dopodiché, dopo averlo redatto a mano, mi recai nella saletta del ciclostile. Lì incontrai il classico “angelo del ciclostile” cioè una ragazza che appena mi vide entrare mi indicò sbrigativamente: lì la macchina per scrivere, lì le matrici, lì la carta da stampa, lì il ciclostile. Cioè, dopo poche settimane di occupazione, le ragazze già si erano stufate di fare le segretarie, le dattilografe e le stampatrici. La divisione del lavoro era saltata. L’esperienza delle tante fanzine autoprodotte negli anni ’70 e graficamente ben più ricche, venne da lì. Non mera produzione spontanea dal basso, ma pagine prodotte, studiate graficamente, impaginate, e diffuse a “distribuzione militante”, senza rigide distinzioni di ruoli. Nel tempo, il livello qualitativo, sul piano espressivo, di queste pubblicazioni, crebbe. Le fanzine punk della fine anni ’70 sono incomparabilmente più elaborate e creative dei volantini “tutto testo” del ‘68.
E veniamo a un altro aspetto, quello che Stucchi definisce: “l’incontro tra espressione visiva e verbale”. Non si può tacere l’influenza che aveva avuto su di noi la lettura dei fumetti, che univano per statuto l’espressione visiva a quella verbale. Tuttavia i fumetti lo facevano in forma narrativa, cioè per usare una definizione di Hugo Pratt, in forma di “letteratura disegnata”: si disegnavano storie, si raccontava per immagini. Dal ’68 in avanti la pura grafica assume un rilievo sconosciuto prima. Disegno grafico e parole grafiche, simboli e slogan travalicano la storia messa in immagini, la storia non è NEI manifesti, è nel sociale. Il manifesto si inserisce in una storia collettiva reale, senza la quale il manifesto stesso non ha senso e in molti casi non è neppure decrittabile. Tuttavia, il libro di Stucchi e la relativa mostra, ci consentono, a posteriori, osservando oltre i singoli manifesti, l’insieme dei manifesti, che essi raccontano non soltanto la Storia esterna, ma sviluppano essi stessi una narrazione interna, di manifesto in manifesto. Questa trasformazione anticipa stilemi piuttosto recenti, come il passaggio dalla “letteratura disegnata” del fumetto classico, di cui parlava Pratt, al “graphic novel” correttamente inteso, cioè “romanzo grafico”. La grafica più del disegno, tantomeno il disegno “realistico”, ne è protagonista.
Gianfranco Manfredi