Torniamo su I manifesti del maggio francese, volume curato da Bruno Stucchi per Skira con la recensione di un maestro dell’illustrazione
Li abbiamo negli occhi tutti quei manifesti, stampati in nero o rosso su bianco, lo slogan in francese, secco, diretto e spesso ironico o paradossale. Sono i manifesti del maggio ’68 parigino. E quando diciamo del maggio intendiamo proprio quel mese abbondante, dal 14 aprile, giorno in cui gli studenti di architettura occupano la facoltà a danno vita all’Atelier Populaire, al 28 giugno, quando la polizia sgombera la facoltà e mette di fatto fine all’esperienza dell’Atelier. In quella manciata di settimane i giovanissimi rivoluzionari sforneranno qualcosa come 350 manifesti a un ritmo forsennato in un’esplosione di comunicazione e creatività quasi senza paragoni. In I manifesti del maggio francese (Skira) Bruno Stucchi ha selezionato quarantacinque affiche e una manciata di slogan scritti a vernice direttamente sui muri delle città in rivolta e ne ha analizzato storia e caratteristiche. Perché oltre a essere un capitolo della storia europea che merita memoria, quei giorni e quei linguaggio hanno seminato effetti e ricadute per tutti i decenni a venire.
Chi è Giancarlo Ascari
Nato nel 1951, laureato in Architettura, Giancarlo Ascari, noto anche con lo pseudonimo di Elfo, è illustratore e autore di fumetti. Ha pubblicato su varie testate, tra le quali Linus, Corriere dei Piccoli, Pilote (Francia), Epix (Svezia), Babel (Grecia), Linea d’Ombra, Il Manifesto, L’Unità, Smemoranda, la Repubblica, Corriere della Sera, Diario. Ha curato mostre di illustrazioni e fumetti in USA, Giappone e Italia. Nel 1979 è stato tra i fondatori di Storiestrisce, cooperativa che raccoglieva il meglio del fumetto d’autore. Tra i suoi libri: Quelli che Milano (assieme a Matteo Guarnaccia, BUR Rizzoli 2010), Oltre il giardino del signor Monet (con Pia Valentinis, Lapis 2015), Gong, viaggio nel tempo (con Pia Valentinis, Franco Cosimo Panini 2017), e il recentissimo Ponti non muri (con Pia Valentinis, Bompiani 2018).
La recensione
I manifesti del maggio ’68 a Parigi sono il punk dieci anni prima del punk. Lo si capisce bene ritrovandoli nel libro di Bruno Stucchi, che ha raccolto una bella selezione di poster e slogan apparsi sui muri in quei giorni. I primi anni ’60 sono il tripudio della società dei consumi: la televisione entra in tutte le case, la pubblicità viaggia in quadricromia sulle riviste patinate, al cinema trionfa il glamour di James Bond, la moda è pop e coloratissima. Poi nel ’68 viene maggio, gli studenti invadono le strade, i sampietrini bucano il fumo dei lacrimogeni, le vetrine vanno in frantumi, per il consumismo è la fine dell’innocenza. Il 15 di quel mese gli studenti della Scuola di Belle Arti, che forma l’intellighenzia dell’Architettura in Francia, occupano la facoltà e fondano l’Atelier Populaire.
Quel collettivo artistico-politico in 40 giorni sforna oltre 300 manifesti, tutti discussi in assemblea prima di essere realizzati, tutti stampati in litografia e serigrafia con gli scarni macchinari della scuola. Si torna al grado zero della comunicazione, i muri di Parigi si coprono di manifesti a tre soli colori: bianco, rosso, nero. Disegni essenziali, slogan secchi, ironia caustica, nessun rispetto per nessuno.
Il pugno chiuso che esce dalla ciminiera della fabbrica con la scritta “la lotta continua”, il poliziotto col manganello e la sigla SS sullo scudo, i caproni con lo slogan “ritorno alla normalità”. Sono tutte icone che diventeranno storiche nella loro essenzialità, uniscono l’irriverenza “bestiale e malvagia” della rivista Hara Kiri con i giochi spiazzanti dei situazionisti, capovolgono la finta semplicità della pubblicità in vera rabbia. Discendono direttamente dalle “finestre”, i manifesti di propaganda sovietica che Majakovskij crea dal 1919 al 1921 per l’agenzia ROSTA.
Sono veri giornali murali che esprimono pensieri complessi con frasi brevi e disegni apparentemente elementari, ogni giorno. Poi maggio finisce e il 28 giugno del 1968, alle quattro del mattino la polizia sgombera l’Atelier Populaire. Ma non è che l’inizio, la lotta continua: dieci anni dopo il nuovo grado zero si chiamerà punk.
Giancarlo Ascari