Facile dire che la parola “razza” non può avere cittadinanza. Che le razze non esistono. Se poi, per definire insiemi omogenei di popolazioni sulla base di caratteristiche fisiche e magari genetiche usiamo degli ingegnosi sinonimi, “etnia” per esempio, vuol dire che la razza cacciata dalla porta la stiamo facendo rientrare dalla finestra. E allora, più che gli ideologi possono soccorrere i linguisti. Specie quelli seri, intelligenti e brillanti come Andrea Moro, che in La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo (La nave di Teseo) parte proprio dall’odioso bisillabo e dalla sua capacità di infilarsi dappertutto per portarci in un mondo di parole, di frasi, di fonemi persino che quanto e più di ogni colore della pelle e di ogni forma degli occhi decidono chi siamo e a chi assomigliamo. Nelle pagine di Moro, lingue barbare, idiomi “superiori”, parlate scomparse ci raccontano storie di incontri e soprattutto di scontri, di influenze e di gerarchie tanto arbitrarie quanto radicate. Le parole sono pietre, specie se non ne conosciamo il funzionamento. La realtà è, per dirla con l’autore, che “ci conviene dunque rassegnarci all’evidenza che tutti gli esseri umani parlano la stessa lingua”.