In Italia, di norma, se si vuole fare un dispetto a un politico in carriera lo si nomina Ministro della Cultura. Il malcapitato già si vedeva, non diremo al Ministero degli Interni o all’Economia, ma almeno alle Partecipazioni Statali, al Lavoro, all’Istruzione, alla Sanità, persino all’Innovazione. Ma la Cultura… un dicastero che neanche i giornali considerano al momento del totoministri.
Si ricordano pochi nomi di ministri della Cultura felici dell’incarico al momento della nomina e seriamente impegnati durante il mandato. Sono gli stessi di cui ci si ricorda il nome. Uno di questi è Massimo Bray, che è stato ministro per meno di un anno tra l’aprile del 2013 e il febbraio del 2014, durante il governo Letta. Massimo Bray ha deciso di raccontare quella sua esperienza e ha scritto Alla voce cultura. Diario sospeso della mia esperienza di Ministro, appena pubblicato da Manni.
Bray d’altronde dal mondo della cultura viene e lì è tornato, tra la gran fabbrica dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana – la Treccani, per intenderci – e la Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura – sempre per intenderci: il Salone del Libro di Torino – passando pure per la direzione della rivista Italianeuropei e per la presidenza della Notte della Taranta. In sintesi, Bray ministro è stato la continuazione del Bray manager culturale, pienamente consapevole che servono risorse perché la cultura sia una risorsa. Da qui, per dirne una, l’approvazione di Valore Cultura, legge quadro sul riconoscimento, salvataggio e conservazione dell’enorme patrimonio di beni culturali in Italia. E quel “sospeso” nel sottotitolo induce a pensare che, chissà, un secondo passaggio forse sarebbe disposto anche a farlo.