Konstandinos Kavafis è uno dei grandi poeti del Novecento. Lo è per un pugno di poesie, 154 componimenti per lo più affidati a una oscura rivista letteraria ateniese quando non a foglietti volanti. Lo è nonostante la sua natura schiva e appartata, di greco di Alessandria d’Egitto, presto trapiantato a Londra e poi a Costantinopoli e solo in età avanzata tornato ad Alessandria. Un maestro della letteratura greca che la Grecia la vide solo da turista nel corso di tre viaggi, di cui l’ultimo, nel 1932, pochi mesi prima di morire. Un poeta che ha composto il suo scarno canzoniere levando e selezionando, in un severissimo lavoro di rinuncia. Per questo il volume di Tutte le poesie che Donzelli manda in libreria in questa fine anno per le cure di Maria Paola Minucci, è un’opera capitale. Lo è perché a fianco delle 154 poesie “ufficiali, recupera 74 poesie nascoste, per la maggior parte inedite, che Kavafis riteneva di dover conservare “segretamente”, “testi da non pubblicare ma da conservare”, come lui stesso annotava, e 27 poesie tra le prove poetiche più antiche, che aveva poi rifiutato negli anni successivi. È lo stesso Kavafis a riconoscere a questi testi una grande importanza, quando arriva ad affermare che è solo da ciò che ha rifiutato che sarà possibile conoscerlo davvero. Del resto, è proprio a queste poesie sepolte che il poeta affida la parte più vera e profonda di sé, come scrive già in una poesia del 1892: “Molte le poesie scritte/ nel mio cuore; e quei canti/ sepolti sono a me molto cari”.