Ne esistono tante di figure che hanno fatto la Storia, ma che per qualche motivo non sono “passate alla Storia”, perché lasciate ai margini delle narrazioni ufficiali. È stato così anche per Benjamin Lay. L’indisciplinato, «piantagrane», «irrefrenabile profeta» Benjamin Lay, quacchero anglo-americano affetto da nanismo, ex marinaio e pioniere dell’abolizionismo.
Le efferatezze verso gli schiavi africani di cui era stato testimone nel periodo in cui viveva alle a Barbados lo spinsero, nel 1738 – quarant’anni prima che nel mondo anglo-americano emergesse un vero movimento anti-schiavista – a pubblicare All Slave-keepers that keep the Innocent in Bondage, Apostates, pamphlet in cui chiedeva la fine immediata e incondizionata della schiavitù in tutto il mondo.
Era un uomo singolare, Benjamin Lay. Deriso e disprezzato dai suoi contemporanei, costruì la sua opposizione alla schiavismo intorno a una spiccata teatralità, spesso esibendosi in pungenti performance volte a mettere in ridicolo i padroni e le élite.
Il suo, infatti, era un «illuminismo dal basso», un attivismo radicale che si contrapponeva allo status quo, immaginando non solo la fine della schiavitù, ma anche l’ascesa di uno stile di vita lontano dal modello del capitatale, senza violenza per nessuna creatura vivente. Proprio per questo, Lay viveva in una grotta, praticava il vegetarianismo, non consumava cibi né indossava abiti che fossero costati la vita agli animali o che derivassero dal lavoro degli schiavi.
In Il piantagrane: storia di Benjamin Lay, appena pubblicato da Elèuthera, il noto storico Marcus Rediker, docente dell’Università di Pittsburgh, ripristina il ricordo dell’attivista e il suo ruolo nella Storia, raccontandoci la vita di un uomo disallineato, fuori dall’ordinario, in anticipo sui tempi e completamente fedele ai suoi ideali. Come scrive Rediker nell’introduzione: «La sua vita è una storia di lotta impavida per la causa».