Giovanni Cacciavillani
Baudelaire è il poeta della modernità: vale a dire il poeta della coscienza infelice. Ogni amore è misto a odio, ogni felicità si mescola con l’infelicità. Baudelaire è pertanto il poeta dell’ambivalenza e della congiunzione degli opposti, il poeta dell’ossimoro. Que-sta intima disposizione è epocale: trascende la soggettività per diventare il marchio dell’umana condizione in un mondo in cui imperano il tecnicismo e il progressismo. Una tale ferita non poteva non sollecitare il lato melanconico di Baudelaire, già colpito profondamente dal mondo femminile, dalla madre in particolare. Allora il suo libro poetico sarà – come egli dice – «atroce», nero. Ma la coscienza della finitudine gli impone un limite: abbandonato il mondo del dandismo, egli si apre alla pietà verso i diseredati e i marginali di ogni dove, quelli che hanno perduto «ciò che non si ritrova più». Così è il problema della morte ad autenticare il dettato poetico di Baudelaire, il più grande poeta dell’Ottocento, a renderlo struggente, straziante, disperato e insieme coraggioso, eroico. «In fondo all’ignoto per trovare il nuovo». Pervasa di una musicalità ora aspra e stridente, ora cullante e tersa, la «poesia del male» di Baudelaire espone un mondo che evoca l’inferno dantesco entro la perfezione formale dei versi di Petrarca.