Marco Lupis
Agli albori di questo millennio, tra l’inverno dell’anno 2000 e l’estate dell’anno successivo, l’autore intraprese un viaggio itinerante attraverso l’Oriente, che lo portò da Hong Kong, dove viveva, ad attraversare molti paesi di quell’area: dall’India al Giappone, dalla Tailandia al Laos, dal Vietnam a Macao, dalle remote isole Kurili al sud delle Filippine. Fino al confine estremo, che non appartiene più a nessun luogo geografico, ma rappresenta egli stesso un nuovo continente, il sesto, l’Antartide. Un viaggio condotto senza particolare fretta, mandando regolarmente articoli e reportage ai giornali per i quali lavorava. Di tanto in tanto, però si imbatteva in alcune brevi storie fantastiche, al limite del credibile, che erano reali, certo, ma parevano uscite da un racconto di Kipling, da una storia cupa di Conrad o dall’immaginazione sfrenata di Emilio Salgari: dalla tomba di Gesù alle nuove geishe, dai lottatori di Sumo alla prostituzione minorile, dai mezzi di trasporto alle spie, dai canguri all’ultimo eunuco dell’imperatore. Erano frammenti di un Oriente fantastico, storie che raccontavano un mondo che ormai, a tanti anni di distanza, è irrimediabilmente scomparso ma che ci viene riproposto con fedeltà ed incanto allo stesso tempo. Un libro sull’Asia che prosegue e consolida la figura di Lupis – ormai in buona parte acclarata dalla critica e dai lettori – come il “nuovo Tiziano Terzani”, come ha più volte sostenuto pubblicamente la vedova del grande scrittore e giornalista scomparso nel 2004.