Alberto Caracciolo
Eletti, o piuttosto «nominati». Espressione di una rappresentanza popolare, ma più ancora frutto di una designazione da parte di poteri esterni. La storia dei sindaci di Roma riassume le contraddizioni dei poteri di una città forse troppo gravata dal peso delle proprie funzioni simboliche e di rappresentanza: da sempre «capitale» (di un impero, di una Chiesa, di un'identità linguistica e culturale), dopo le travagliate vicende risorgimentali Roma è diventata anche il «centro politico» del paese. Troppe cose, per poter essere anche, e autonomamente, uno spazio urbano consegnato al governo di se stesso e delle proprie specificità. Accade così che, anche quando si tratti di personalità dotate di specifica autonomia - come nel caso di Luigi Pianciani e Leopoldo Torlonia, di Filippo Cremonesi o di Onorato Caetani, o più recentemente di Rebecchini, Argan o Giubilo - i sindaci di Roma non riescono a coagulare il consenso e la collaborazione di una maggioranza di «cittadini» nel senso pieno della parola: le sorti della città sembrano piuttosto dominate da piccole oligarchie, presidio di poteri estranei e spesso avamposto indistinto di una umiliante pratica clientelare. Esempio contrario, e dunque positivo e incoraggiante, quello del «Blocco popolare» diretto da Nathan attorno al 1910; e spunti analoghi, anche se compressi in una stagione troppo breve e presto degenerata, quelli rintracciabili nella giunta diretta da Petroselli due decenni fa.Ma quale destino attende ora la capitale, nel più generale sommovimento italiano? Si accentuerà il suo ruolo «speciale» o si comincerà a redistribuire con maggiore equilibrio la pluralità delle sue funzioni? E quali saranno, in che direzione portranno essere usati, i nuovi poteri previsti per il sindaco?