Christopher Isherwood
Mentre il mondo precipita a velocità vertiginosa verso il baratro della seconda guerra mondiale, Monk torna dopo oltre trent’anni alla casa della sua infanzia, in una piccola comunità quacchera della Pennsylvania, nuovamente circondato dalle cure della «zia» che l’ha cresciuto con indefettibile abnegazione. E, costretto all’immobilità da un incidente forse non del tutto casuale, decide di mettere ordine fra le lettere della prima moglie, Elizabeth, una scrittrice di successo scomparsa da pochi anni. Sarà lei, indirettamente, a gettare una luce nella sua confusione, aiutandolo a disfarsi del passato – «Mettilo in una teca di vetro e ammiralo come fosse un tesoro, se vuoi» –, a riflettere sulle leggi imperscrutabili che governano l’attrazione, ad accettare la stranezza del matrimonio, di tutti i matrimoni, almeno quelli che durano. E sarà sempre lei, che in un certo senso ha «inventato» Monk e ne ha fatto «il più realistico» dei suoi personaggi, a fornirgli la chiave per comprendere e perdonare se stesso. Così, nel desiderio espresso da Elizabeth: «Ah, come mi piacerebbe, come mi piacerebbe saper buttare giù a decine di quei vasti, informi romanzi impulsivi, pieni di opinioni contraddittorie e di calore, di energia, di stupidità e di vita», si può leggere in filigrana quello che è mirabilmente riuscito a Isherwood in queste pagine.