Giuseppe Bruschi
Kevin Durant era stanco di arrivare secondo. Catapultato in una comunità profondamente ferita da un attentato terroristico, quel ragazzetto tanto longilineo quanto scheletrico aveva caricato sulle spalle tutte le responsabilità di diventare l'eroe sportivo di un'intera città. I toni pacati, l'ineccepibile educazione insegnata dalla madre e l'umiltà trasmessa dal proprio comportamento si sono lentamente trasformati in un crescente rifiuto verso i media e una sfiducia nei confronti dei tifosi. Un processo di deterioramento dei rapporti con il mondo esterno legato a doppio filo con la pressione portata dall'incapacità di vincere un titolo NBA. Kevin Durant era stanco di vivere nell'ombra di qualcun altro. Seconda scelta al draft, secondo nella classifica MVP, una finale persa. Ha gettato la maschera che indossava e ha fatto la scelta che agli occhi del pubblico l'ha trasformato in un villain quasi cinematografico. Non solo sapeva che spostando drasticamente gli equilibri della lega avrebbe attirato l'odio di tanti appassionati, ma comprendeva perfettamente come quel cambio di casacca avrebbe segnato il momento storico in cui la lega e il professionismo sportivo sarebbero stati pensati in modo del tutto diverso. Oggi, Kevin Durant si trova di fronte alla sfida più difficile della propria carriera e portarla al termine lo consacrerebbe tra le più grandi leggende di questo sport. Forse come il più grande antieroe di sempre.