Giuseppe Cantarano
In questi ultimi anni si è molto equivocato sul termine «antipolitica». Una categoria che per lo più viene utilizzata per designare un generico e «qualunquistico» rifiuto della politica. In realtà, le cose non stanno così. Da questa ricognizione dell'Italia del disincanto - immersa, come le altre democrazie occidentali, nei convulsi processi di secolarizzazione - emerge, piuttosto, una tendenza sorprendente. L'antipolitica, quel diffuso atteggiamento di indifferenza se non di esplicita ostilità verso la politica, è piuttosto l'altra faccia della politica. Di quella assoluta, onnicomprensiva e autoreferenziale, che ostinandosi a declinare impropriamente il linguaggio teologico - Fini Ultimi, Grandi Valori - non fa altro che produrre un'inesorabile spoliticizzazione. In realtà, nella presunta contrapposizione polemica, l'antipolitica non fa altro che riprodurre la vocazione spoliticizzante della politica assoluta, intensificandone l'esito nichilistico. Politica e antipolitica, pertanto, paradossalmente convergono, in quanto l'antipolitica è l'esito dell'esasperata politicizzazione della società. E una volta che la società è stata per intero politicizzata, la politica si socializza. Si diluisce a tal punto, cioè, che ormai ciascun soggetto sociale è legittimato a fare direttamente politica, senza più la liturgica mediazione dei partiti e della politica. È un male, è un bene? Staremo a vedere.