Franco Ferrarotti
Mai come in questo nostro tempo, si parte. Il viaggio, pratica e metafora plurimillenaria, luogo cruciale del nostro immaginario, in questa nostra fine di millennio si fa concitato, frenetico, continuo. Si parte da soli o più di frequente in gruppi, per vacanze o pellegrinaggi di massa, governati dai tour operators che scelgono tutto: dalla destinazione all'itinerario, al menu, ai souvenir da portare a casa.Si parte per tornare, recita un vecchio adagio. Ma una società come la nostra, «ad alto tasso di nomadismo», sembra aver smarrito proprio la dimensione del «ritorno», insieme con quella della memoria. A ben vedere, oggi è la memoria ad essere in pericolo. E senza memoria non si può tornare.Nel mondo in cui tutti viaggiano, il viaggio allora si eclissa. Nella cultura del presente assoluto ci si muove sempre e non si arriva mai. Si viaggia con una fretta esponenziale, con la golosità di una bulimia indifferente ai contenuti, sorda alle situazioni, cieca di fronte alle differenze. I linguaggi si sono stemperati in un solo linguaggio: un linguaggio basic, semplificato, privo di risonanze. Tutto è preciso, ma nello stesso tempo sciapo come la cucina di un vagone ristorante.Pamphlet, saggio, itinerario - le pagine di Ferrarotti disegnano la radicale, ironica presa di distanza da questo «non viaggio». E il viaggio mentale di Ferrarotti risale all'indietro, da Chatwin a Freud, a Rilke, fino alla laica riscoperta dei luoghi deputati del viaggio biblico. Allo sconcluso viaggio del turista, si affianca e si contrappone infatti, più tragico e disperato, quello dei boat-people, dei diseredati in cerca di speranza, l'altra faccia, meno standardizzata e rassicurante, di un nomadismo che ci riconnette alla dimensione del tempo storico, del passato e del futuro.Lo straniero di Emmaus, la moglie straniera del Libro di Ruth evocano così il senso contraddittorio, inquieto, aperto del viaggio: l'incontro e lo scontro, la fecondazione reciproca - o l'odio micidiale - tra diverse culture.