Cesare Garboli
«Leggere è vedere, scrivere è essere ciechi», afferma Garboli in questo libro. E davvero gli Scritti servili sono un’educazione alla vista, fatta di «lampi di cognizione», della capacità rabdomantica di far riaffiorare quasi ad ogni rigo qualcosa che era rimasto nascosto. La felicità di queste pagine è nella loro inerme consegna alla confessione più intima di uno scrittore--lettore, che va a prendere le parole degli altri «e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo». E così, parlando della vita e del teatro di Molière, del «destino di autodistruzione ilare e buffonesco, ma anche così tragico» di Antonio Delfini, della «discontinuità del desiderio» e della «perversione saturnina» di Penna, dell’elogio dell’appartenenza della Ginzburg, delle metamorfosi di Elsa Morante, Garboli finisce per disseminare le tracce di un’umanissima testimonianza esistenziale e in definitiva per raccontare se stesso.