Di Giusy Nicosia
Quando veniamo al mondo non sappiamo cosa ci aspetti, dobbiamo ancora imparare a farci un’idea di noi stessi, ma quella arriverà nel tempo. Riuscire, poi, a definirci, non solo come esseri umani, ma anche come persone, nelle nostre singolarità, può richiedere anche tutta la vita. In fondo, quello che cerchiamo, sin dal nostro primo vagito su questa terra, anche se, in quel momento, solo in modo inconsapevole, è essere sereni, prima ancora che felici. Quello che conta è trovare un rifugio da ogni forma di paura che può assalirci e renderci vulnerabili.
Eppure, c’è chi crede che essere vulnerabili non sia così sbagliato, ma piuttosto possa essere un’opportunità per diventare la versione migliore di noi stessi. Questa è una sola delle tante riflessioni interessanti su cui potremmo fermarci a ragionare anche per ore, leggendo Fede, speranza e carneficina di Nick Cave e Seán O’Hagan, da poco pubblicato da La nave di Teseo +: «Credo che essere davvero vulnerabili significhi esistere adiacenti al collasso o all’oblio, – afferma Cave – in quel luogo ci possiamo sentire straordinariamente vivi e ricettivi verso ogni tipo di cosa, a livello creativo e spirituale. In modo perverso, può rappresentare una ragione di vantaggio, non di svantaggio come si potrebbe pensare. È un luogo sfumato in apparenza rigoglioso di rischi quanto di possibilità. È il luogo dove possono avvenire i grandi slittamenti. Più tempo vi trascorri, meno preoccupato divieni rispetto a come verrai percepito o giudicato, ed è lì in definitiva che risiede la libertà».
Fede, speranza e carneficina non è né un’autobiografia, né un saggio critico sulla produzione dell’artista, bensì il risultato di quaranta ore di conversazioni private tra l’artista australiano e Seán O’Hagan, giornalista di “The Observer” e “Guardian”, oltre che suo caro amico di vecchia data. Durante questa lunghissima chiacchierata, Cave dialoga con O’Hagan non solo di arte, musica, libertà, amore, ma anche del suo rapporto con il dolore, per la morte inaspettata, nel 2015, del figlio Arthur, esperienza che lo segna profondamente, fino al punto di stravolgere il suo mondo interiore e un percorso artistico che vede già grandi cambiamenti negli ultimi album, Skeleton Tree e Ghosteen: «Penso che portare Skeleton Tree in giro sia stato una forma di terapia pubblica. E fare il tour di In Conversation mi ha aiutato moltissimo. Ho imparato come parlare del lutto a mio modo».
Allo stesso modo del blog The Red Hand Files, attraverso cui l’artista, da qualche anno, condivide con i suoi fan, creando con loro un legame molto più intimo, pensieri, riflessioni e aneddoti, in risposta ai loro messaggi, In Conversation è stato un modo per “entrare nel regno dell’impossibile”, un luogo che lo ha avvicinato, in qualche modo, a suo figlio Arthur, tutte le volte che saliva sul palco per rispondere alle domande delle persone: «Proprio così, e anche prima di salire sul palco. È lì che ho sentito che Arthur era veramente con me. Stavamo seduti insieme nel backstage, ci parlavamo, e, quando salivo sul palco, percepivo una potentissima presenza di sostegno e una forza enorme anche – la sua mano nella mia. Era in realtà come la mano della donna che mi aveva stretto da Infinity – come se la sua mano fosse in qualche modo quella di Arthur. Sentivo che tramite il desiderio lo riportavo in vita. Era una sensazione molto intensa e molto potente».
Anche se non è facile trovare un senso a una tragedia personale vissuta, quello che si può fare è trovare la forza di entrare in quella oscurità, magari con l’aiuto di chi l‘ha già affrontata. Ed è quello che decide di fare Cave, rimanendo aperto e vulnerabile davanti al suo pubblico, senza nascondergli alcuna sua fragilità: «Sì, e quello è un luogo potente in cui ritrovarsi, – racconta l’artista – perché non c’era niente che potessero chiedermi che io non fossi in grado di gestire in qualche modo. Ripensandoci, credo che la costante enunciazione del mio lutto e l’ascolto delle storie altrui siano stati un grande strumento di guarigione, perché coloro che vivono il lutto sanno. Sono loro a raccontare. Sono andati nell’oscurità e hanno fatto ritorno portando con sé il sapere. Possiedono le nozioni che le altre persone che soffrono hanno bisogno di ascoltare. E la cosa più stupefacente in assoluto è che tutti noi ci passiamo, prima o poi».
La stessa musica diventa ancora di più, per Nick Cave, uno strumento di esplorazione di quel mondo, poiché nel fare musica e nel perdercisi dentro, si entra prepotentemente in intimità con il divino: «Quello che in fondo sto cercando di dire è che forse abbiamo intuizioni più profonde di quelle che realizziamo. Forse le canzoni stesse sono canali attraverso i quali una qualche più grande e intensa comprensione viene rilasciata al mondo. Esiste un altro luogo che può essere convocato attraverso una pratica che non è l’immaginazione, quanto piuttosto un posizionamento laterale della tua mente riguardo a questioni spirituali. È una sorta di stato liminale di coscienza, che precede il sogno e precede l’immaginazione, connesso allo spirito. È un “regno impossibile” dove i lampi dell’essenza sovrannaturale delle cose trovano voce. Arthur vive lì. All’interno di quello spazio, è un sollievo credere nei lampi di una cosa ulteriore, che è altra, che è oltre. Riesco a spiegarmi?».
Per l’artista australiano la sua esperienza religiosa diventa più intensa di quanto già non lo fosse stato prima della morte di Arthur: «La morte di Arthur – racconta Cave – ha letteralmente cambiato tutto per me. Assolutamente tutto. Mi ha reso una persona religiosa, nel senso che sento su un piano profondo una radicale inclusione nella condizione umana, davvero, e una comprensione della nostra vulnerabilità e del fatto che, come individui, siamo, ognuno di noi, in pericolo. Nella misura in cui tutto può divenire catastrofico in qualsiasi momento, a livello personale, per ciascuno di noi. Guarda questa pandemia. Guarda quanto incredibilmente vulnerabili siamo. Tutte queste strutture su cui in teoria si regge il mondo e poi veniamo atterrati da un virus. Ogni vita è precaria, e alcuni di noi lo comprendono e altri no. Ma certamente tutti lo comprenderemo prima o poi. E per via di ciò, sento verso le persone una forma di empatia che non ho mai sentito prima. È urgente e inedita ed essenziale».
A ognuno di noi, sostiene l’artista, può accadere, a un certo punto, “una decostruzione del sé che conosciamo”, che non deve necessariamente essere una morte, ma una qualche forma di devastazione, come un tradimento, la fine di un matrimonio o un problema di salute, che ci fa esplodere in milioni di pezzi. Ciò di cui, però, dobbiamo tenere conto, afferma Cave, è che c’è sempre un ritorno dal trauma e dal dolore, anche se ci scopriamo diversi e cambiati: «Io credo che questo significhi vivere, veramente – morire in un modo e rinascere. E talvolta può accadere ripetutamente, questa complessa metamorfosi di chi siamo. La mia esperienza è stata, alla fine, un processo spirituale e trasformativo. Ed è stato Arthur a portarmi qui».
Nick Cave è considerato oggi, grazie soprattutto a uno stile lirico e musicale inconfondibile, non solo una delle figure più influenti e carismatiche della musica contemporanea, ma anche uno degli artisti viventi più visionari del nostro secolo. La sua anima dark e gotica si percepisce nei testi, in cui si respira una forte tensione religiosa, ma anche un’angoscia esistenziale che lo porta continuamente a ricercare la redenzione e a porsi domande su quale sia il ruolo del divino nella vita dell’uomo.
Inserito dal critico Piero Scaruffi al primo posto nella classifica dei migliori cantautori della storia, la grande icona dell’art rock si è fatta apprezzare anche come compositore, scrittore, sceneggiatore e attore. Tutte doti che gli sono valse l’onorificenza, nel 2017, come Ufficiale dell’Ordine dell’Australia.
Fede, speranza e carneficina
Nick Cave, Seán O'Hagan
LA NAVE DI TESEO +
VAI AL LIBRO- Genere:
- Listino:
- € 21.00
- Collana:
- Data Uscita:
- 20/09/2022
- Pagine:
- 0
- Lingua:
- EAN:
- 9788893951463