La casa di Roma

Dopo gli autobiografici Mio padre era fascista, A proposito di Marta o La fine del giorno, Pierluigi Battista esordisce con un romanzo epistolare, La casa di Roma.

Questa volta però concede la parola ai giovani e utilizza l’occasione per osservare le cose da una prospettiva nuova. Marco, sceneggiatore in via d’affermazione di poco più di trent’anni, chiede l’aiuto della madre, dello zio e di tutti i parenti e grazie ai loro ricordi riprende in mano le antiche memorie della famiglia Grimaldi solcata negli anni da tradimenti, equivoci e contraddizioni.
Sullo sfondo il quartiere romano di Prati. Chi a Roma ha vissuto sa cos’è Prati e cosa rappresenta. Un quartiere contraddittorio di strade regolari, caserme e piazze d’armi, che risente dell’ordine piemontese dopo l’Unità d’Italia, ma anche di cantine musicali, ballerine, teatri e attori. Luogo simbolo che più di ogni altro è in grado di interpretare e riconoscere le loro rivalità.

Di lettera in lettera il libro sembra scriversi da sé mentre le diverse prospettive si moltiplicano e inrtecciano. In particolare, quella del nonno Emanuele, “fascista antropologico”, e di suo fratello, giurista diventato esponente di prestigio del PCI, “prigioniero di una tetraggine mentale quasi caricaturale”. Su tutti, Marco, che osserva e a volte giudica con gli occhi di chi appartiene a una generazione successiva, quella del nuovo millennio.

Anche se questa volta Pierluigi Battista non propone una storia dichiaratamente autobiografica è evidente che nella storia che racconta così come dietro le fattezze dei personaggi che fa rivivere si nasconde lui stesso. Vediamo Battista nella madre Anita, nel padre, ma soprattutto nello zio Raffaello, quello che per aspirazioni e ideologie è più vicino a lui.

Un libro sincero e autentico che cerca di ridare senso a un’umanità che a volte si comporta come un ramo spezzato e che per eccesso di insensatezza finisce per diventare assolutamente indecifrabile.