Sembrano passati secoli, ma c’è stato un tempo in cui esisteva la critica letteraria, in cui l’accademia usciva dai propri recinti e si faceva “militante”, in cui il giudizio su un libro era il frutto finale di una vista di studi e letture spesso specialistici. E in cui comunque il magistero del critico era riconosciuto e decisivo per la fortuna, non solo e necessariamente commerciale di un libro. Intendiamoci, nessuna età dell’oro, nessun paradiso in terra per romanzieri e poeti, ma sicuramente un sistema culturale che oggi fatichiamo a immaginare.
È a partire da questo quadro storico generale che Giulio Ferroni, lui sì critico militante e accademico, ha iniziato a ragionare sullo statuto attuale della critica per il suo agile pamphlet su La solitudine del critico. Leggere, riflettere, resistere (Salerno Editrice).
Le domande sono quelle cruciali: che spazio ha la critica nella situazione attuale dell’editoria? Dove può insinuarsi l’esercizio del fondato giudizio e dell’analisi nel confronto con il dominio ormai totalizzante del mercato? Come esercitare credibilmente la critica militante in un mondo letterari caratterizzato da una iperproduzione di testi oggettivamente inaffrontabile da un singolo lettore? Dove ha portato la dilagante “produzione di teoria a mezzo di teoria”, e dove la sottomissione della critica a discipline come la linguistica, i cultural studies, la biologia? Tra scientismo alla moda e un giudizio di gusto in odore di marketing, qual è il posto e il ruolo della critica letteraria?
Ferroni affronta da polemista appassionato tutti questi interrogativi. E ci ricorda che il ruolo del critico è proprio oggi di fondamentale importanza, in termini squisitamente “ecologici”, in opposizione a ogni forma di pensiero unico.