di Giusy Nicosia
Le grandi verità, per essere davvero comprese, hanno bisogno di parole devote e potenti, che si manifestino con la velocità di un lampo e con la forza di un uragano.
Parole nude, libere da ogni orpello, brucianti, e così coraggiose da non poter essere ignorate, come quelle del poeta statunitense Jericho Brown, riunite nella silloge La tradizione, da poco pubblicata da Donzelli: «Perché dobbiamo / Svegliarci per lavorare / Prima d’ogni sveglia? / – si chiede Brown, nella poesia “Seconda lingua” – Sono l’uomo delle domande, / Il pronipote / Fatto così da mezzadri / Morti cui fu promesso / Un lotto di boschi da tagliare. / Credevano di poter / Possedere la terra cui erano / Legati. In quella parte / Del paese, un nodo / È qualcosa che ti ritrovi / Dopo essere finito al / Tappeto, e storia vuol dire / Menzogna //».
L’urgenza della sua poesia ci mette, ancora una volta, con le spalle al muro: dobbiamo attraversare quell’oscurità che, nostro malgrado, appartiene ancora al nostro mondo, se vogliamo davvero che ogni uomo, qualunque sia il colore della sua pelle, possa riscattarsi e riavere la propria dignità.
La tradizione, di cui ci parla Brown, non rappresenta solo memorie e testimonianze preziose, da tramandare da una generazione all’altra e da custodire come un’eredità irrinunciabile. La sua non è una tradizione tutta da onorare, poiché si rivela, così come la definisce Antonella Francini nella postfazione del libro, «un vaso di Pandora da cui escono i soprusi subiti dai neri d’America nel corso della storia e che tuttora generano discriminazione razziale, diffusa e costante. Una tradizione in negativo, dunque, da interrompere e combattere».
Brown non ha filtri: «Sono stanco / Di pretendere bellezza dove / C’è solo verità», si legge nella poesia “I conigli”. I suoi versi sono crudi e diretti nel mostrare, senza alcuna pietà, una realtà brutale, soprattutto quella della polizia, dove il razzismo, le violenze sessuali, le forme nuove di schiavismo e gli omicidi di massa sono all’ordine del giorno. Nulla per cui l’America, in questa sua veste scura, possa sventolare orgogliosa la sua bandiera a stelle e strisce. Nulla che possa lasciarci indifferenti. Nulla che possa impedire agli afroamericani di sviluppare quei meccanismi di autoprotezione per contrastare i rischi a cui il loro corpo li espone nel mondo.
Ed è proprio il corpo, quello nero maschile e quello femminile, nella poetica di Brown, a essere la parte più vulnerabile a queste crudeltà del mondo. Un corpo troppo spesso violato e mutilato, su cui le madri non dovrebbero versare mai le loro lacrime, un corpo che, piuttosto, dovrebbe essere trattato con estremo rispetto: «Volevo quello che chiunque / – si legge nella parte finale della poesia “So cosa amo” – Abbia orecchio vuole – / Essere toccato e / Toccato da una presenza / Senza mani».
Ed è proprio in quel corpo, reale nella sua fisicità, ma anche simbolo della sua interiorità, in quel giardino dove l’essere umano nasce, cresce, appassisce e, a volte, sopravvive, che il poeta, come direbbe il suo amato Whitman, può cantare di se stesso, così come facevano i suoi antenati, schiavi degli Stati Uniti d’America, che cantavano mentre lavoravano, senza sosta, nelle piantagioni di cotone del Sud. Nella sua poesia, attraverso la forma del sonetto, l’io narrante del poeta passa dalla prospettiva personale a quella collettiva, per dare voce alla sua gente, ma anche a ogni minoranza: «Come ha detto Brown, – spiega Francini nella postfazione – il sonetto è il luogo in cui tutto ciò che lo interessa può esistere simultaneamente come esiste simultaneamente nel suo corpo – una pluralità di temi e di forme. Anche per lui, ha affermato, come per i poeti della sua generazione, è la lezione di Whitman che riemerge, riassunta nel noto verso in «Song of Myself»: «I am large, I contain multitudes». L’America è il teatro in cui Brown mette in scena il male umano, dove perfino l’amore è talvolta rappresentato come una battaglia contro amanti feroci, descritti come lupi affamati. Ma è anche il luogo del bene, che riscatta e redime: la bellezza dei fiori e delle piante coltivati da giovani uomini e da donne di colore che così, metaforicamente, ricostruiscono quel giardino dell’Eden violato dai bianchi; l’amore dei figli per le madri e quello degli amanti per i loro compagni; la coraggiosa denuncia della violenza per difendere e dare voce agli oppressi».
Per Brown, poeta lirico/performativo del XXI secolo, in cui emerge la sua identità di «black and queer and Southern», tradizione significa anche recuperare lo straordinario patrimonio letterario e musicale afroamericano, attraverso «la ripresa del sonetto di protesta elaborato dai poeti dell’Harlem Renaissance all’inizio del XX secolo, – spiega Antonella Francini – i quali, recuperando l’archetipo italiano, avevano trasformato il canone dei quattordici versi in uno spazio abitato dalla voce del poeta nero che sfida la più alta forma lirica occidentale sostituendo il tema amoroso con una critica aperta a quella cultura, alle sue contraddizioni e ipocrisie». Il poeta ci mette poi del suo, attingendo ad ampi registri linguistici, che vanno dal cristiano al biblico, dall’accademico al lirico, per andare oltre ogni classificazione e ogni confine esistente tra Oriente e Occidente, e creando qualcosa di originale: «Anche Brown, come in passato Claude McKay e Countee Cullen, – racconta ancora Francini – inserisce nella struttura del sonetto temi politici attuali creando una forma ibrida di sonetto, il «duplex», nato dalla fusione di elementi del blues, del ghazal e del sonetto stesso e in grado di imporre la presenza viva di una voce e di un corpo che cantano una ferita ancora aperta di traumi e di dolori». Distribuiti nelle tre parti da cui è composto questo libro, che raccoglie cinquantadue poesie, i suoi quattro duplex formano una corona di sonetti nati proprio dalla fusione di questi elementi.
Vorace lettore sin da quando aveva sei anni, Brown trascorreva intere estati in biblioteca con sua sorella, mentre la madre lavorava, passando dai versi di Robert Lowell a quelli di T. S. Eliot, da quelli di Whitman e della Dickinson a quelli di Sylvia Plath e di Anne Sexton. La sua scrittura, influenzata successivamente da autori molto diversi come Claudia Rankine, Lucille Clifton, Adrienne Rich, Walter Whitman, George Oppen, Louise Glück e John Milton, è ispirata anche dai versi di Gwendolyn Brooks, Yusef Komunyakaa, Natasha Trethewey, Tracy K. Smith, Gregory Pardlo, Tyehimba Jess e Rita Dove, tutti poeti neri che hanno vinto il Premio Pulitzer.
Jericho Brown, all’anagrafe Nelson Demery III, con The Tradition, il suo terzo libro, si è aggiudicato anche lui il Premio Pulitzer, nel 2020, oltre a essere stato finalista per il National Book Award e il National Book Critics Circle Award.
Professore associato alla Emory University ad Atlanta, dove dirige il programma di scrittura creativa, Brown ha ricevuto, negli anni passati, numerosi altri prestigiosi riconoscimenti, tra cui: l’Anisfield-Wolf Book Award con “The New Testament”, il suo secondo libro, l’American Book Award con “Please”, la sua prima raccolta poetica, il National Endowment for the Arts, la Guggenheim Fellowship e una residenza alla Fondazione Civitella Ranieri, in Umbria, nel 2015. Le sue poesie sono apparse in diversi volumi di The Best American Poetry e su autorevoli testate come: Bennington Review, BuzzFeed, Fence, jubilat, The New Republic, The New York Times, The New Yorker, The Paris Review e TIME.
La tradizione
Jericho Brown
DONZELLI EDITORE
VAI AL LIBRO- Genere:
- Listino:
- € 14.00
- Collana:
- Data Uscita:
- 23/09/2022
- Pagine:
- 0
- Lingua:
- EAN:
- 9788855223607