La storia raccontata in Mohammad, mia madre e io (SEM) è ambientata a Parigi, ma inizia a New York.
Qui, da qualche anno, vive Benoit Cohen, regista, sceneggiatore e produttore francese. Siamo nel 2017, il Presidente Trump ha appena iniziato il suo mandato e minaccia di chiudere le frontiere. Il progressista Cohen non può che guardare con preoccupazione l’ascesa al potere di un presidente xenofobo.
Proprio in questo periodo, Benoit viene a sapere che sua madre settantenne, Marie-France, sta per accogliere Mohammad, rifugiato afgano di 22 anni, nella sua lussuosa casa nel VII arrondissement di Parigi, dove vive sola. Lo ha deciso dopo aver ascoltato un programma radiofonico in cui si parlava di Singa, un’associazione impegnata nel mettere in contatto i rifugiati con persone che desiderano accoglierli.
Dopo lo shock iniziale, arriva la preoccupazione: la madre sta aprendo la casa a un perfetto sconosciuto. Così, Benoit, emigrato per scelta, torna a Parigi per incontrare Mohammad, migrante che non ha mai avuto il lusso di scegliere. Tra i due uomini, così diversi, nascerà un’intesa amicizia, mentre Marie-France diventerà una figura materna anche per Mohammad.
Tutto questo è successo davvero. Si tratta di un’esperienza personale che Benoit Cohen ha sentito il bisogno di affidare alle pagine di Mohammad, mia madre e io, perché dimostra che solo attraverso la diretta conoscenza dell’altro possiamo superare le nostre paure.
Con una scrittura elegante e un raffinato senso dell’umorismo, l’autore francese riflette sul vero significato della parola “dare”. Dare conforto, rifugio, aiuto chi ne ha bisogno, e ricevere in cambio molto di più.
Questa storia, dicevamo, inizia a New York e si svolge a Parigi, ma speriamo che continui dovunque vivano i futuri lettori di Mohammad, mia madre e io.