di Giusy Nicosia
A chi di noi non piacerebbe avere un’esistenza da vivere all’insegna della libertà? Chi di noi non vorrebbe svegliarsi al mattino, senza essere assalito da alcun genere di preoccupazione?
Sarebbe bello poter seguire solo il proprio istinto, lasciando il mondo fuori dalla porta della propria casa «… E vivere, vivere / sentirsi pienamente vivere secondo / la propria anima libera», come suggeriscono i versi di Sandro Penna, la cui intera esistenza Elio Pecora ripercorre nel libro Nel dolce rumore della vita. Biografia di Sandro Penna, da poco pubblicato da Neri Pozza.
Pecora, anche lui poeta, oltre che scrittore, saggista e critico letterario, aveva conosciuto Sandro Penna a Roma, negli ultimi anni della sua vita, e fu tra i suoi più assidui interlocutori nelle lunghe conversazioni telefoniche, diurne e notturne. Si vedevano nella sua abitazione romana, la “casa-tana” dove il poeta umbro si era letteralmente barricato, tra quadri, stampe, disegni e poesie spesso nascoste nei doppi fondi degli stipi o dietro una cornice, come racconta l’autore, ricevendo pochissime persone.
Fu proprio Pecora a scoprire, sempre qui, il suo corpo esanime, in un giorno di gennaio del 1977, e a ritrovare, nei giorni successivi alla sua morte, un’autentica miniera di materiali inediti: «Certo di non poter raccontare l’uomo nelle sue molte verità, – racconta nella premessa del libro – volevo almeno sapere il più possibile della sua esistenza e piuttosto attraverso lui stesso che grazie ai ricordi e alle altrui impressioni. Perciò, quando fra la caterva dei fogli che avevo raccolto nella sua casa, m’accadde di rinvenire appunti minuziosi dei suoi anni adolescenti e finanche i diari dei suoi brevi e pochi viaggi, e inoltre lettere e pensieri e note di lettura e improvvise esaltazioni e propositi di morte, seppi allora che mi toccava soltanto di ricostruire dal dentro quel che era stato e gli era accaduto, e che i testimoni avrebbero potuto aggiungere pochi particolari alle sue stesse asserzioni e confidenze, ma piuttosto avrebbero potuto darmi notizie sugli anni in cui aveva abbandonato i diari e quasi del tutto la scrittura».
In queste pagine di rara bellezza, l’autore non ci racconta solo la vicenda umana e letteraria del poeta perugino, ma ci regala un suo ritratto speciale, nato da un lavoro accurato, frutto di intelligenza, rispetto, amore e altrettanta sensibilità. In quell’uomo, che molti avevano definito «a metà fra il santo e il folle, incantevole, malato immaginario, nevrotico, vecchio fanciullo, indigente, affarista e spacciatore di pessime mercanzie, il più libero dai vincoli sociali e il più impaurito dalla povertà e dalle malattie», Pecora aveva intravisto, sin dall’inizio, molto di più, fino poi a rendersi conto di quanto quella luce brillasse in modo sorprendente: «E vidi Penna, così come avevo visto Wilcock, pari a un re, né ho conosciuto altri degni di tanto: re come uomini al centro dell’universo anche sofferente e tremendo, ma al di sopra delle distinzioni sociali, della dignità, del decoro».
Il poeta, «fanciullo sapiente, uomo essenziale, uomo d’amore, arcaico al punto massimo dello svelamento e della vitalità, misto di grandezza e di miseria, di allegria e di depressione», percepiva come opprimente la sua quotidianità, poiché quel poco che gli offriva lo teneva troppo lontano dall’innocenza, dalla gioia, dalla grazia e dalla bellezza in cui aveva sempre immaginato la sua esistenza, che di certo non poteva far parte della “vicenda comune” o rientrare in una “norma” a cui lui sentiva di non appartenere, o accettare un compromesso a cui non si sarebbe mai rassegnato: «Era come se in giorni remoti, forse prenatali, – racconta Pecora – una voce misteriosa gli avesse promesso la totalità, l’estrema purezza, l’ardore più grande. Allora si era voluto eroe, al centro dell’essere, al di là della paura e dell’errore».
La sua poesia aveva attraversato anni di paure e sconforto, che oggi emergono ancor di più da quel “fascio degli appunti – sparsi per fogli e foglietti, scritti a matita, fitti di scancellature – e di lettere mai spedite, di momenti mai raccontati ad alcuno”, come spiega l’autore: «La sua poesia registrava un’alternanza di disperazione e di allegrezza, di discesa verso il vuoto e il niente e di risalita alla luce e alla dolcezza della vita».
«La mia poesia non sarà / un giuoco leggero / fatto con parole delicate / e malate / (sole chiaro di marzo / su foglie rabbrividenti / di platani di un verde troppo chiaro). / La mia poesia lancerà la sua forza / a perdersi nell’infinito / (giuochi di un atleta bello / nel vespero lungo d’estate)». Penna aveva individuato un rifugio, per questa gioia promessa, nel “sogno della poesia”, il regno cercato, ma anche nel fanciullo, “elevato a dio ed eroe, l’altro in cui contentarsi”, nonostante nessun avvenimento della sua vita, neppure nei momenti più fortunati, fosse mai riuscito davvero ad allontanarlo dalla sua “sotterranea malinconia”: «Dove furono, dunque, la felicità di Sandro Penna, l’allegria che comunicava agli amici, la santità di cui lo vide circonfuso Pasolini? – si chiede Pecora – Di certo nella sua opera, recinto di parole sicure, universo concluso della poesia. Dalle sue giornate traeva l’istante dell’estasi, il talismano che trattiene e salva, la percezione velocissima della verità. Il resto era esistenza e in essa l’uomo procedeva esitante e malato, spesso anche avido e trepidante».
Sandro Penna si avvicina alla poesia passando dai versi di Leopardi a quelli di Rimbaud, alimentando le sue fantasie e, allo stesso tempo, l’orrore per la regola così come la propensione al dubbio e alla sofferenza, grazie anche alle letture illuminanti di autori come Nietzsche, Pasolini, Wilde, Crevel e Poe: «Voglio una poesia gocciolante di viva passione, grezza di tutte le scorie che ne attestano la presenza. – così come si legge in uno dei minuscoli taccuini ritrovati da Pecora nella sua casa – Non amo la poesia che sopra la passione si alza serenamente e domina: questa sarà dello stato d’animo posteriore ad essa passione e solo per quello potrà interessare, ma non certo bisogna trascurare la vera prospettiva del momento in cui realmente l’anima duole o gode. Dominio sul tumulto del sentire, dicono tutti i poeti. E perché? Perché solo allora nasce la poesia? Perciò amo soprattutto i poeti che non hanno voluto fare del loro nome una parola universale, amo i poeti che nessuno di noi conosce. Fra gli altri, fra i celebri, amo chi si è avvicinato alla rinuncia all’arte: e solo ha commesso il tradimento verso gli uomini di scrivere ugualmente».
Grandi amicizie, pronte a sostenerlo fin dove era possibile, sono state quelle che Penna ha stretto, nel tempo, con Eugenio Montale, Umberto Saba, Elsa Morante, Natalia Ginzburg e Pier Paolo Pasolini. Le carte ritrovate nella sua casa testimoniano, e confermano, il suo forte legame anche con pittori come: Maccari, Guttuso, Mucci, Gentilini e Mafai. Il poeta perugino ebbe modo di incontrare e frequentare, nella sua vita, anche tanti altri grandi nomi dell’ambiente letterario, come Palazzeschi, Betocchi, Moretti, Pavese, Gadda, Ungaretti, Falqui, Gatto, Gargiulo, De Libero, Baldini, Vigorelli e Cacciatore.
Sandro Penna ha vinto, nel 1957, il Premio Viareggio per la raccolta “Poesie” e, nel 1977, il Premio Bagutta, pochi giorni prima della sua morte, con il volume Stranezze.
«Ed io non mi ricordo più chi sono. / Allora di morire mi dispiace. / Di morire mi pare troppo ingiusto. / Anche se non ricordo più chi sono». Si chiude così la poesia dedicata a Montale, i cui versi onoravano l’amico di un tempo lontano, e le cui parole dimostrano, come una volta lo stesso Penna aveva scritto, che “ognuno è nel suo cuore un immortale”.
Nel dolce rumore della vita. Biografia di Sandro Penna
Elio Pecora
NERI POZZA
VAI AL LIBRO- Genere:
- Listino:
- € 18.00
- Collana:
- Data Uscita:
- 23/09/2022
- Pagine:
- 0
- Lingua:
- EAN:
- 9788854524231