Franco Fabbri abbiamo imparato ad apprezzarlo fin dalla giovinezza. Da quando era chitarrista, cantante e compositore negli Stormy Six. Da quando le manifestazioni studentesche risuonavano delle note di “Stalingrado”, sugli stereo nelle camere coperte di poster la puntina cadeva su dischi intitolati L’Unità, Un biglietto del tram, Macchina Maccheronica, L’apprendista. Poi abbiamo iniziato ad apprezzarlo anche come musicologo, autore di libri imprescindibili e illuminanti come Il suono in cui viviamo, Around the clock, L’ascolto tabù, e il bellissimo “romanzo” musicale Album bianco. Tutti libri colti e dotti che parlano in maniera colta, dotta ed estremamente lucida di Popular Music, ossia in italiano di… musica leggera? pop? popolare? extracolta? Insomma, di tutta quella musica non “classica”, ma nemmeno più folclorica, che forma parte decisiva della modernità. E già la vaghezza della definizione la dice lunga sulla difficoltà a tenere insieme tutte le espressioni che non rientrano nel canone della musica riconosciuta come colta, dalla canzone napoletana al rebetico greco, dal jazz al rock’n’roll, dalla canzonetta al rap e così per decine e centinaia di generi diversissimi tra loro. Il contributo degli studi di Franco Fabbri nel definire, chiarire, conoscere questo mondo sono autentici pilastri in ambito musicologico.
In questi giorni però, Jaca Book manda in libreria Non è musica leggera, in cui Fabbri raccoglie numerosi saggi che esplorano l’altra faccia della musica, ossia i terreni della musica “colta” perlopiù moderna e contemporanea, diciamo novecentesca, con qualche salto all’indietro in tempi anche più remoti. E tutto viene rimesso in discussione. Musica non leggera la chiama l’autore, vendicando così decenni di vaghezza subita dalle più umili musiche di consumo quotidiano ed evidenziando il fatto che neppure quella musica – colta? di tradizione? d’arte? classica? – risulti in ultima analisi così compattamente omogenea nelle sue caratteristiche formali, nelle sue intenzioni estetiche, nelle modalità del suo consumo e della sua diffusione.
Musicisti di confine
Non è un caso che i musicisti al centro della riflessione di Fabbri siano allora, ognuno a suo modo, autori di confine, portatori, ognuno nel suo modo unico e individuale, di un peculiare rapporto sia con la tradizione colta alla quale infine vengono ascritti, sia con il mondo della popular music da cui molte suggestioni, molte tecniche e molte attitudini socio/estetiche risultano derivar loro.
E allora ecco il Kurt Weill debitore tanto del suo maestro Arnold Schönberg quanto delle musiche da balera e da kabarett, l’altro dodecafonico convertito a Brecht Hanns Eisler, il Béla Bartók a un tempo padre di tanta avanguardia e di tutta l’etnomusicologia a venire, e poi Charles Ives, così americano, così innervato dei rumori e delle musiche della città che sale. Nello stesso Gustav Mahler, cui sono dedicati i due capitoli iniziali, Fabbri cerca e trova affioramenti di valzer e “orchestrine del Prater”. E poi, va da sé, il Šostakovic imbevuto di jazz e fox-trot, fino ai minimalisti, dannazione dei tassonomi accademici e beniamini di un pubblico sempre più trasversale. Steve Reich e Terry Riley e Philip Glass e Michael Nyman dove li incaselliamo? Nella musica “non leggera” da cui dilagano verso pubblici e modalità di consumo più tipicamente pop? È proprio solo così? E il Frank Zappa amato dal supercilioso Pierre Boulez, che lascia l’amata chitarra elettrica e si fa compositore di partiture per archi con “The Yellow Shark”? E il Leonard Bernstein osannato interprete mahleriano quando veste i panni del direttore, a che “operazione” dà vita nel momento in cui scrive, per dire, “West Side Story”?
Galeotto fu Bernstein
Proprio Bernstein, peraltro, è il responsabile primo di questo stesso libro. Lo racconta l’autore nell’introduzione riprendendo la citazione da Album bianco: nella stagione 1983 – ’84 il Teatro alla Scala ospita la prima mondiale di una nuova opera del compositore americano, che in realtà rifonde due piéce precedenti, “A Quiet Place” e “Trouble in Tahiti”. Il risultato non sembra convincere nessuno, per problemi intrinseci alla partitura ma anche per la sua natura ambigua, a cavallo tra classica contemporanea e pop. Insomma, nessuno vuole farsi carico del saggio per il programma di sala. Finché a qualcuno non viene in mente di chiamare un outsider, un musicologo, certo, ma che si occupa proprio di quelle altre musiche lì. Il saggio di Franco Fabbri funziona a meraviglia, tutti tirano un sospiro di sollievo, Bernstein apprezza. Le porte della Scala e i sommari dei programmi di sala si spalancano per il nostro musicologo di frontiera.
Che oltre a intervenire su tutti quei compositori a cavallo tra mondi diversi, viene sempre più spesso invitato a cimentarsi con autori contemporanei come Penderecki e Sciarrino, Francesconi e Xenakis, Ligeti e Donatoni. Perché proprio la conoscenza dei linguaggi musicali “extracolti” (fa un po’ ridere dare dell’extracolto a Robert Fripp o a Fred Frith, ma tant’è, ormai ci siamo capiti) ossia della musica contemporanea in tutti i suoi aspetti, dalle più ostiche sperimentalità ai prodotti più industrialmente vocati al largo consumo, permette a Franco Fabbri di inquadrare questi autori e le loro musiche in un mondo più complesso e stratificato della mera appartenenza “verticale”, per quanto magari polemica, alla tradizione.
Questioni teoriche
Questa che abbiamo raccontato però, è solo poco più di metà del volume pubblicato da Jaca Book. C’è una seconda parte di Non è musica leggera di cruciale importanza, che raccoglie saggi di natura teorica scritti da Fabbri nel corso degli anni e usciti su riviste, miscellanee, atti di convegni in giro per il mondo. In questi testi, la specifica competenza musicologica entra in risonanza con la forte vocazione semiologica per affrontare problemi cruciali come la teoria dei generi (e la loro nominazione); la natura sociale, relazionale della musica; il dibattito sul concetto di “nuovo”, centrale in un’epoca segnata dal lascito e dal fallimento di avanguardie e neoavanguardie di tutti i tipi e dalle speculari necessità dell’industria culturale, condannata a produrre e promuovere novità a ritmo continuo per mantenere desta la vocazione al consumo dei propri clienti; la questione del rapporto tra musica classica e pop attraverso casi esemplari come “Planets”, di Holst, e gli immarcescibili “Carmina Burana” di Orff.
In definitiva Non è musica leggera si affianca agli altri libri di Franco Fabbri e li completa, chiudendo a perfezione, per il momento, l’indagine avviata con Il suono in cui viviamo, riportando a unità il “campo musicale” pur nella consapevolezza profonda e vigile delle differenze.
Ci sono libri, e non sono tantissimi, molto autorevoli, ci sono libri assai belli, ci sono libri esaustivi, e poi ci sono, ancora più rari, libri come quelli di Franco Fabbri, che aprono la mente, che illuminano pezzi di reale fino a quel momento privi di nome, che danno nitore e sostanza a idee fino allora confinate nel limbo delle intuizioni in cerca di forma.
Non è musica leggera
Franco Fabbri
VAI AL LIBRO- Genere:
- Musica e danza
- Listino:
- € 20.00
- Collana:
- Musiche
- Data Uscita:
- 24/09/2020
- Pagine:
- 328
- Lingua:
- Italiano
- EAN:
- 9788816416352