Viviamo in un mondo che, guardato dal punto dei vista dei nostri nonni, ha un che di fantascientifico. Un mondo accessibile, visitabile, che ha fatto della mobilità uno dei suoi requisiti fondanti. Possiamo andare dall’altro capo del mondo in una manciata di ore, poco più di 24. Loro, i nostri nonni, potrebbero non aver lasciato nemmeno il luogo dove sono nati, che conoscono a menadito. Al massimo potrebbero essere emigrati in altre città o Paesi. Difficilmente hanno viaggiato per turismo.
Parte proprio da qui la riflessione del sociologo Rodolphe Christin, che nel suo Turismo di massa e usura del mondo, saggio pubblicato da Elèuthera proprio prima delle vacanze estive, ci invita a guardare la questione da un diverso punto di vista.
Perché noi, invece, siano cresciuti nel mito del turismo. Andare altrove per vedere, guardare, conoscere nuove realtà. Viaggiare ci sembra un’attività determinante per la nostra felicità. Alcuni viaggiano per scappare dal caos del quotidiano, la cosiddetta «fuga d’evasione». Altri si considerano viaggiatori e non turisti, e si sentono a casa solo quando sono in movimento. Bello, poetico, ma in realtà questo desiderio di conoscere “altro” si è trasformato immediatamente in qualcosa da monetizzare. Un’industria vera e propria, e di massa.
Così, turisti e viaggiatori di oggi, sono diventati, volenti o nolenti, i consumatori di questa mastodontica industria che si nutre di desideri e vende la bellezza del mondo. E molto spesso, è causa dell’usura di quel pianeta che diciamo di amare e desideriamo vedere, perché assolutamente non sostenibile.
Nel suo saggio, Christin ci invita a riflettere su quell’ipermobilità che spesso ci rende miopi, a fare un passo indietro e a guardare oltre quella mitologia pubblicitaria che, in qualche modo, ha standardizzato i nostri desideri.